La Maja Madre (La Controra, 2)
Visitavo di nascosto il mio primo amore proprio alla controra, mentre mio padre e mia madre riposavano qualche stanza più in là. Era la ragazza del paginone centrale; non già di Playboy – cose di là da venire – ma di un libro sul museo del Prado: era la Maja desnuda di Goya. Non che tra quelle pagine mancassero altri allettamenti, per un bambino alla vigilia della pubertà, diciamo pure altre conigliette: la ninfa addormentata del Baccanale degli Andrii di Tiziano, in una posa di abbandono sospettamente teatrale, che ancora non avrei saputo decifrare; la Danae noncurante, sovranamente ignara del suo spettatore, in contegno di mitologica gattamorta; la rotonda, matronale Eva di Dürer, a indicare la via di un erotismo salubre, e nella pagina a fronte le tre Grazie adescatrici di Hans Baldung Grien a trascinarmi sulla strada meno illuminata. Ma io ero fedele alla Maja, lei sola guardavo, distesa sulla sua ottomana di velluto verde tra i cuscini di seta, una diagonale bianca circonfusa dal buio.
Com’ero caduto in suo potere? Voleva tirarmi, la Maja, in direzioni opposte, come nel supplizio dello squartamento. Le braccia aperte e ripiegate dietro la testa, a meglio scoprire i seni anch’essi divaricati, lo sguardo confidente (“ha più nudo lo sguardo che il corpo bellissimo”, notava nel mio libro il curatore Ragghianti), tutto questo invitava, chiamava a sé; ma per chi raccogliesse l’invito e percorresse con gli occhi quella linea discendente era pronta, nel centro geometrico del quadro, la tagliola delle gambe serrate. Era un’ingiunzione paradossale che avrebbe dato qualche grattacapo agli psichiatri di Palo Alto. Guardami, non guardarmi; desiderami, non desiderarmi. L’altalena del sì e del no che fa l’essenza della civetteria s’imprimeva qui nella simultaneità di una posa. E io, ero il dominatore dominato.
Questi antichi terrori di piccolo misogino sono affiorati scorrendo le illustrazioni di un libro nuovo, Il gesto femminista (DeriveApprodi). È dedicato al gesto della vagina: pollici e indici congiunti a comporre secondo i casi un triangolo, una losanga appena accennata, una mandorla gotica. Gesto di origini incerte, oggetto di congetture antropologiche e storiche; la cesura, informano le autrici, fu quando all’alba degli anni Settanta lo si poté vedere sulla copertina della rivista francese Le torchon brûle. Di lì il simbolo dilagò, e il libro ne segue le vicende fino alle Vagina Warriors e alle Pussy Riot. Le vecchie fotografie delle manifestanti per le strade di Roma o di Milano mi riportavano a un’oscillazione familiare, quasi la stessa della Maja desnuda. Il loro era un segno di orgoglio, una dichiarazione di guerra al patriarcato, forse perfino un maleficio, una fascinazione – la vagina esibita come fascinum, amuleto fallico, per impietrire e legare. Eppure, tutto in quei gesti sembrava indicare una resa: le mani in alto e le palme bene in vista, avvicinate a inscrivere nell’aria un vuoto.
Sandor Ferenczi, lo psicoanalista ungherese sodale di Freud, descrisse in una breve nota sulla nudità come mezzo d’intimidazione (Die Nacktheit als Schreckmittel, 1919) il terrificante gesto di una madre che sollevava la gonna per spaventare il figlio piccolo che riluttava a staccarsi da lei. Lo trovai citato nello stravagante capolavoro di Georges Devereux, Baubo, la vulve mythique, pubblicato nel 1983 da Jean-Cyrille Godefroy, un gabinetto delle meraviglie che radunava fonti disparate – mitologie, notizie etnologiche, immagini sacre, disegni di pazienti psichiatrici, rotocalchi, perfino un numero di Playboy (l’anziano rispettabile studioso assicurava, teneramente, di averlo sfogliato per caso dal barbiere).
Non ricordo per quali vie Devereux dal mito orfico di Baubo – la serva che si accovaccia per mostrare la vulva a Demetra, che vaga in cerca di Persefone – arrivasse ai corpi femminili esibiti nella pornografia e sui manifesti pubblicitari, ma una cosa ricordo: l’inversione vertiginosa con cui, pur con qualche lambiccamento psicoanalitico di troppo, Devereux vedeva nella “donna oggetto” non una povera cosa alla mercé dei fallocrati ma al contrario un segno di dominio, un’ostentazione vittoriosa, da falloforia dionisiaca. Ero di nuovo risucchiato nell’ambivalenza con cui la coniglietta del Prado mi aveva legato a sé. Illuso di scrollarmi di dosso i miei fantasmi sono sceso a fare due passi per le strade del centro, ma mi pareva che tutte quelle cosce, quei seni, quelle schiene nude fossero sul punto di scollarsi dai manifesti per congiungersi in qualche luogo e ricomporre il corpo di una Grande Madre.
16 luglio 2014
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