L’entropia della lingua
Dopo tanti libri che preferirei non aver letto, finalmente mi imbatto in uno che mi piacerebbe aver scritto. S’intitola I poeti sono impossibili, ed è un mélange adultère di saggi e interventi partoriti dal multiforme ingegno di Alessandro Carrera nel corso degli ultimi dieci anni. Carrera è uno degli scrittori più versatili di cui io abbia notizia, e basta dare un’occhiata a qualche sua sommaria biografia (come questa o questa) per avere la misura dell’estensione dei suoi interessi. Se leggerete qualcuno dei suoi libri, poi, s’imporranno alla vostra considerazione il suo umorismo, la sua erudizione, il suo bello scrivere, la sua presa quasi plastica su parole, concetti, stati d’animo.
La mia conoscenza diretta di Carrera passa soltanto per un paio di email che ci scambiammo anni fa come cultori di Bob Dylan (avevo appena letto il suo La voce di Bob Dylan, che mi aveva dato spunto per Da Bob Dylan ai tre porcellini, passando per l’inferno). Vi segnalo di passaggio che Carrera ha appena curato e tradotto una sorta di edizione definitiva del “canone” dylaniano, Lyrics 1962-2001. All’epoca, tuttavia, gli scrissi più che altro per ringraziarlo di aver fornito al mio kit di autodifesa culturale un indispensabile vademecum, con il suo Come difendersi dalla poesia atroce, uscito su “Poesia” nel gennaio 1997 (e oggi incluso ne I poeti sono impossibili). Potete leggerlo integralmente su Poetastri, ma nel frattempo eccovi un estratto:
Per prima cosa, va compreso che il poeta atroce non è una creatura ordinaria. Essere poeti mediocri è relativamente facile. Ma per essere poeti atroci ci vogliono un’inclinazione naturale e una disposizione d’animo che non sono neanche così frequenti. Scrivere regolarmente atrocità, vincere premi letterari orrendi e farsi scrivere prefazioni ributtanti (…) richiede una dedizione, e uno stomaco, che non tutti sono in grado di sostenere. L’atrocità è esigente non meno della bellezza, richiede applicazione e coerenza. Un poeta mediocre può, eccezionalmente, scrivere qualche bel verso. Il poeta atroce non può permettersi lussi di tal genere. Deve essere sempre atroce dal primo all’ultimo volume delle sue opere complete, inediti compresi. È come essere nati con una mano palmata, non si riuscirà mai a suonare il pianoforte. (…)
Il poeta atroce, a suo modo, ha un’oscura funzione nel disegno della poesia universale. C’è un secondo principio della termodinamica anche per il linguaggio, una morte lenta e penosa che prima o poi contagia nomi, aggettivi, giri di frasi. Come un universo che si espande lasciando un vuoto cosmico al suo centro, il linguaggio conquista sempre nuove distanze ma insieme consuma se stesso, brucia il suo ossigeno, si carbonizza e muore. Il poeta atroce, che crede di essere sempre all’avanguardia, sempre sulla cresta estrema delle nuvole gassose dell’ispirazione, è l’inconsapevole cantore dell’entropia della lingua, il ramazzatore incosciente dei detriti linguistici spenti, la cui energia si è interamente dispersa e non potrà più essere utilizzata. È un potente memento mori. È la Maschera della Morte Rossa che entra di nascosto nei conviti di noi poeti mediocri o mediocremente decenti, rammentandoci qual è l’abisso di lava e di scorie sul quale tutti quanti penzoliamo.
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