Guido Vitiello

Archive for the ‘Stampa’ Category

Profondo Rep.

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Segnalo agli storici del costume che dopo la macabra “moda alla ghigliottina” di fine Settecento – le dame aristocratiche con un nastro di seta rossa al collo per ricordare le vittime del Terrore – bisognerà dar conto del non meno macabro revival della Polaroid brigatista, lanciato da Ezio Mauro per il quarantennale di Repubblica. In verità lui li chiama “selfie dei lettori con il primo numero”, ma per chiunque guardi la galleria sul sito di Rep. l’evocazione è inequivocabile, tanto più che il titolo di apertura del 14 gennaio 1976 era “L’incarico a Moro”. Le famiglie dei lettori possono rassicurarsi: sono tutti vivi e in salute. Confesso, volevo unirmi al carnevale, avevo pure ripescato in soffitta quel numero 1 che per centocinquanta lire mio padre comprò. Ma poi ho pensato che non ne avevo il diritto, perché l’essenza di Repubblica – lo ha ribadito Mauro alla grande festa all’Auditorium di Roma – è lo spirito di club, e io a quel club (un po’ per via di Groucho Marx, un po’ perché all’epoca avevo due mesi) non mi sento di appartenere granché. Quindi ho fatto qualcosa di meglio, ho letto il primo numero da cima a fondo, dalla pubblicità della Sanyo in alto a pagina 1 a quella dei mangimi Mignini in basso a pagina 24, se non altro in cerca di indizi, di premonizioni, di segnali che potessero spiegare la mia triste inappartenenza. Leggi il seguito di questo post »

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gennaio 17, 2016 at 2:35 PM

Arrivano i titani. “1992”, MicroMega e il peplum di Mani Pulite

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5359551-coverA Parigi, nei primi anni Novanta, Enrico Vanzina s’imbatté in un libro della classicista francese Florence Dupont, La vie quotidienne du citoyen romain sous la république, lo lesse e pensò: quasi quasi propongo a mio fratello Carlo di fare un peplum, un film in costume antico romano, sull’Italia di Tangentopoli. Nasce così il cinepanettone del Natale 1994, S.P.Q.R. – 2000 ½ anni fa, a tutt’oggi il tentativo più ambizioso – anzi, semplicemente l’unico, mentre il cinema cosiddetto civile temporeggiava – di raccontare in un solo film la fine della Prima Repubblica, le inchieste sulla corruzione, lo scontro tra magistratura e politica, la nascente mitologia del giudice combattente, il rapporto schizofrenico dell’italiano comune con la legge e la giustizia, l’irruzione scomposta delle leghe e dei qualunquismi. Non so quale libro stesse leggendo Stefano Accorsi quando gli è venuta in mente l’idea di 1992, la fiction su Mani Pulite che andrà in onda in primavera su Sky Atlantic, e che era prevista per l’autunno, e io, mannaggia, avevo già preparato i popcorn; ma a giudicare dalle foto di scena circolate finora si direbbe che ha visto se non altro moltissime copertine di MicroMega, specie quella più famosa dove il trio Di Pietro Davigo Colombo è trasfigurato in icona warholiana. Leggi il seguito di questo post »

A scanso di equivoci futuri (se gli equivoci hanno un futuro)

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Dunque, ricapitolando: 1) Oggi Miguel Gotor scrive su la Repubblica un ricordo dell’ultima (nonché prima) volta che incontrò Lucio Magri. 2) Lo conclude con una citazione dal Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni, ma in modo un po’ ambiguo e senza esplicitare la fonte. 3) Il redattore di Repubblica scambia i versi di Caproni per l’ultima frase di Magri e li sintetizza malamente attribuendoli a quest’ultimo. 4) Ergo, se un giorno sentirete “Come disse Lucio Magri a Miguel Gotor, ‘Scendo. Buon proseguimento'”, sapete come è andata. Oltretutto, era Gotor che stava scendendo, e Magri lo guardava dall’alto delle scale. Annunciare “Scendo” a uno che sta scendendo, ne converrete, suona piuttosto demenziale.

Gotor

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gennaio 8, 2013 at 4:46 PM

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Confessioni di un anticomunista viscerale

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Uno dei primi ricordi di mio padre risale agli anni della guerra, quando non aveva neppure quattro anni: un soldato inglese gli regalò del cioccolato, un tedesco gli strappò dalle mani gli occhiali da sole della mamma. A un grado embrionale, dunque, la sua coscienza politica si formò con lo stesso meccanismo di certi esperimenti sull’apprendimento degli scimpanzé: banane e scosse elettriche. Nel mio caso le cose furono più ingarbugliate, lo schema elementare di simpatie e antipatie su cui si regge ogni coscienza politica non trovò appigli così saldi: le mie passioni civili erano costrette a fluttuare. Nel 1989, a tredici anni, appresi dell’esistenza del Muro nello stesso istante in cui lo vidi crollare. Da lì in poi, fu come assistere a una partita in cui, nottetempo, qualcuno avesse cancellato le linee di gioco: per orientarmi ci vollero anni di letture, congetture e arrabbiature. Se mio padre riassaporasse oggi quel cioccolato, chissà, qualcosa risveglierebbe la potenza dell’originario insight – alleati buoni, nazisti cattivi. Io devo accontentarmi di madeleine molto più astratte: la stagione della mia formazione politica è riaffiorata quando mi sono trovato tra le mani il libretto postumo di un autore che allora si sentiva nominare spesso, François Furet. S’intitola Inventaires du communisme e non fa che affinare le tesi del Passato di un’illusione, analisi e anamnesi di una fata morgana (quella comunista) di cui egli stesso era stato in balìa. Ebbene, fu proprio grazie ai detrattori di Furet che feci la mia conoscenza con una coppia inseparabile di sostantivo e aggettivo: era, dicevano, un «anticomunista viscerale». E questo, a quanto pare, non andava bene. Leggi il seguito di questo post »

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agosto 20, 2012 at 7:13 PM

Prove tecniche di sfascismo (L’Espresso, 8 marzo 1992)

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luglio 25, 2012 at 11:46 am

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Heimat, una parola-pappagallo nel cielo sopra Berlino

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I cieli dello spirito sono affollati di pappagalli. Parole-pappagallo, così le chiamava Paul Valéry: le ripetiamo ad ogni occasione, persuasi che abbiano un senso preciso, ma a ben vedere non sono che “creazioni statistiche” alimentate dai quotidiani commerci dei parlanti. Provate ad abbatterne una, a esaminarne la carogna da vicino, e la vedrete disfarsi come un miraggio. La stessa parola spirito, beninteso, è “un enorme pappagallo”, e così pure universo, natura o destino. Nel cielo sopra Berlino volteggia da secoli un pappagallo di nome Heimat, e di recente lo si avvista così spesso che si è guadagnato l’ultima copertina dello Spiegel: “Was ist Heimat?”, e cioè “Che cos’è…”. E qui sorgono i primi grattacapi. Patria? Terra natia? È quel che suggeriscono i dizionari, ma sono tutte approssimazioni per difetto.

Lo Spiegel prende spunto da due notiziole cinematografiche: nelle sale arriverà a breve il meglio di Deutschland von Oben, serie di documentari della ZDF sulle città, le campagne e le foreste tedesche viste dall’alto; e il regista Edgar Reitz sta lavorando al quarto capitolo della monumentale saga Heimat, che stavolta avrà per tema l’emigrazione tedesca in Brasile nell’Ottocento. E in effetti, da qualche tempo i destini della Heimat sono cuciti a filo doppio con quelli del cinema: il lettore che volesse raccapezzarsi sulla questione (e avesse, per avventura, una cinquantina di ore libere) farebbe bene a guardarsi per intero la trilogia di Reitz, inaugurata nel 1984, a cui si deve la fama internazionale di questa parola che è tedesca fino al midollo. Dalle vicende dei Simon, una famiglia che guarda scorrere tutta la storia novecentesca della Germania dall’immaginario villaggio di Schabbach, nella regione renana dell’Hunsrück, potrà tirare alcune sommarie conclusioni: 1) che la Heimat è un idillio campestre, e non attecchisce bene tra i fumi della grande città; 2) che è un estremo rifugio d’innocenza, soggetto ai cicli della natura più che alla freccia della storia, dove la politica arriva come un’eco remota (è materna, la Heimat: a chiamarti in guerra, e a costruire i campi di sterminio, è semmai la Vaterland, la terra dei padri); 3) che la Heimat, come il villaggio di Schabbach, non esiste in nessun luogo. Leggi il seguito di questo post »

Una caduta di stile del Post

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Il Post non è il Fatto Quotidiano, ed è il motivo principale per cui leggo il Post e non il Fatto Quotidiano (o meglio, leggo il Post per informarmi e il Fatto per spiegare ai miei studenti come non si fa informazione). Proprio per questo il Post non dovrebbe comportarsi mai come il Fatto Quotidiano, nemmeno alla lontana, specie perché il suo direttore, Luca Sofri, nel 2004 scrisse un articolo che era quasi un manifesto, La sinistra che è uguale alla destra, dove si censuravano tutti i vizi di cui il Fatto (che non esisteva ancora) sarebbe diventato poi il campione indiscusso. Le differenze sono semplici: il Post non fa informazione pettegola e persecutoria, non si accoda ai linciaggi, non trucca le carte in tavola, non dà spago ai bugiardi professionisti muniti di archivio, non presta il fianco alla più bieca destra forcaiola abusivamente accampata a sinistra, non affida le proprie prese di posizione a corsivetti maligni, dietrologici e in ultimo stupidi.

E allora proprio non mi va giù che ieri il Post abbia dedicato alla scelta dei deputati radicali di partecipare al voto di fiducia un commento redazionale che è demenziale (absit iniuria) dalla prima all’ultima parola. Non solo è demenziale: è becero, arrogante, pressapochista, sovreccitato e pieno di banalità, immagino a seguito di un’incazzatura redazionale collettiva (cose che capitano). Insomma, se non è un articolo del Fatto poco ci manca. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

ottobre 15, 2011 at 7:36 PM

Pubblicato su Politica, Stampa

Birth of the cool. Appunti sulla nuova glaciazione

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Il settimanale cattolico Tempi mi ha chiesto, lo scorso luglio, di espandere una frase del mio articolo sul cool, Il dolce stil fico, fino a farne un articolo. La frase era questa: “E se avessero occhi per vedere, gli uomini di chiesa capirebbero che la minaccia non viene da una dottrina, il relativismo, ma da uno stile emotivo che prende a modello proprio i ‘tiepidi’ contro cui tuona l’Apocalisse. Non di secolarizzazione dovrebbero parlare, per queste decadi, ma di un principio di glaciazione”. Far lievitare una metafora buttata lì senza troppo pensare non sempre è facile, ad ogni modo questo è il meglio che sono riuscito a inventarmi. Leggi il seguito di questo post »

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settembre 27, 2011 at 7:27 PM

Alessandro Zaccuri su “Mistica senza Dio” di Fritz Mauthner

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Si cerca di fare il giro più largo, ma poi è sempre lì che tocca fare tappa. In Mitteleuropa, nell’inquieto primo Novecento: nel tempo e il luogo in cui la modernità si trasfigura, rivoluzionando le tradizioni conosciute e istituendone di nuove, prima fra tutte la psicoanalisi. È un’epopea contraddittoria e fastosa, di cui crediamo di conoscere bene ogni antieroe, ma che può ancora riservare incontri sorprendenti.

Come quello con Fritz Mauthner, morto nel 1923, a 74 anni, dopo aver portato a termine una serie di opere ambiziose, tra le quali spicca l’imponente Storia dell’ateismo in Occidente che il lettore italiano può consultare online sul sito dell’Uaar. Esatto, l’Unione atei e agnostici razionalisti, quelli che non perdono occasione per polemizzare con la Chiesa. Ma attenzione, perché Mauthner non fu un ateista «prêt-à-penser» come quelli che vanno per la maggiore oggi. Più incline alla complessità che alla semplificazione, si definiva «miscredente devoto». Leggi il seguito di questo post »

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settembre 10, 2011 at 11:25 am

Pubblicato su Libri, Stampa

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Shoah, Olocausto, Auschwitz. Sui nomi dello sterminio

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Chissà cosa sarà passato per la testa, ai funzionari del ministero dell’Istruzione francese, mentre decidevano di accantonare la parola Shoah nei manuali scolastici in favore del lindo e burocratico anéantissement, che sa appunto di circolare ministeriale, e che sarebbe piaciuto ad Eichmann. Forse avranno pensato che una denominazione comune, tale da includere ebrei e zingari, richiedesse un comun denominatore, e che annientamento potesse tenere assieme Shoah e Porraimos, “divoramento”, la parola con cui sinti e rom designano la catastrofe. Ineccepibile, dal punto di vista matematico; imperdonabile, se pensiamo a quanto delicata sia da sempre la questione del nome. Nominare è ben più che etichettare, è fornire un embrione d’interpretazione: non per caso James E. Young scelse come epigrafe al suo saggio sui nomi dello sterminio la frase di Vico secondo cui ogni metafora è una “picciola favoletta”, un mito condensato. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

settembre 3, 2011 at 5:13 PM