Scimmioni mitologici
Non voglio rubare il lavoro all’amico e collega del blog Film, ma ho visto il King Kong di Peter Jackson e ho fatto un paio di riflessioni di cui volevo mettervi a parte. Soprattutto dopo aver letto quanto scrive Luca Sofri su Wittgenstein (12 dicembre): “Mi dispiace per Christian Rocca, ma King Kong è chiaramente un film contro la pretesa di esportare la democrazia con la forza e processare i tiranni locali”.
Quando ho letto queste righe ho capito che insomma, sarò pure un reazionario, ma sono più che certo che i grandi film di genere hollywoodiani vadano letti in chiave mitologica e non storico-politica, se necessario anche contro la conclamata intentio auctoris. Proprio come mi rifiuto di leggere nell’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel – straordinaria ripresentazione del mitologema del Doppelgänger – un’allegoria della minaccia comunista e della caccia alle streghe maccartista, così non credo che, in King Kong (sia nel primo, del 1933, che nell’ultimo), il furto della mela da parte dell’attrice destinata a sedurre il gorilla sia solo un banale accenno alla povertà seguita alla Grande Depressione: che l’autore lo sapesse o no, ha rimesso in scena la storia della caduta nel Giardino dell’Eden, la felix culpa della conoscenza che prelude all’avventura in terre lontane ed esotiche.
Questo King Kong, inoltre, è apertamente un film sul cinema (lo era anche il primo; o almeno così sono portato a pensare da uno dei miei maestri, Alberto Abruzzese, che a questa intuizione ha dedicato un libro intero, La grande scimmia). La nave diretta alla conquista dell’isola misteriosa (l’isola dell’immaginario, primitiva e paradossale, non riscontrata in nessuna mappa se non – avrebbe detto Huxley – agli Antipodi della Mente) è, molto semplicemente, il cinema. Il cinema che vuole appropriarsi di tutto il regno del visibile. Il cinema come macchina mitologica mossa da un autore collettivo, corale. Il cinema anonimo o dai-molti-nomi dei grandi generi di massa. Nulla lo rivela meglio delle sequenze in cui vediamo il giovane e brillante sceneggiatore (Adrien Brody) costretto a scrivere in gabbia nella stiva della nave, metafora trasparente della scomparsa dell’autore, del suo ruolo felicemente servile nel grande ingranaggio mitopoietico.
E peraltro il film trabocca di ammiccamenti per cinefili: il personaggio del regista è modellato in ogni tratto sul giovane Orson Welles; l’ufficiale che cerca di frenare l’audacia voyeuristica del giovane mozzo desideroso di vedere “oltre” si chiama Hayes, perfetto omofono del Codice Hays, il moralistico “manuale di autocensura” per registi e produttori che nei primi anni Trenta si abbatté sul cinema di Hollywood (e sul primo King Kong, come si racconta tra l’altro qui). Insomma, la guerra in Iraq c’entra poco.
…l’ultima constatazione, più desolante, è che il film conferma le più cupe conclusioni di un mio vecchio “trattato bonsai”, Pigmalionesse e uomini-Galbanino: posta davanti all’alternativa, una Naomi Watts preferisce ricercare il lato “dolce e sensibile” in un gorilla di otto metri piuttosto che dedicarsi al gracile intellettuale Adrien Brody, che dolce e sensibile lo è di suo, e non si nutre staccando capocce a morsi. Ma questo è un altro par di maniche.
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