Guido Vitiello

AutoBlografia, o meglio: autoanalisi (more freudiano) di un blogger

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Mi hanno invitato a partecipare – prima per scripta, su questo blog, poi per verba, alla fiera della piccola e media editoria “Più libri più liberi” – al Forum Come nascono le idee?, sul rapporto tra pagine elettroniche e pagine di carta.

Siccome non ho mai riflettuto granché sull’argomento, si è convenuto che io scrivessi in chiave del tutto personale del mio blog e del rapporto che intrattiene con il mondo dei libri. Forse per molti di voi saranno pagine prive di interesse, ma in fondo il guviblog sta per compiere quattro anni, e una sbandata autobiografica gliela si può concedere… Dunque, riporto qui di seguito quel che ho scritto per il Forum.

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Mi è parso, leggendo qualcuno degli interventi proposti finora, che il centro delle riflessioni sia non tanto dove nascono le idee, quanto piuttosto: una volta partorite – siano esse frutto di amori legittimi o illegittimi, nate per errore o per concubinaggio, o perfino orfanelle spaurite che si sono presentate chissà come alla nostra porta – che cosa farne? Affidarle alle cure di un collegio di consolidata e plurisecolare reputazione, quale è quello del libro a stampa, o radunarle in un blog e consegnarle così alla volatilità della parola elettronica, esposte al vento e alle intemperie? Qualcuno ha parlato di un percorso dallo schermo alla carta stampata; altri del tragitto inverso, dal libro al blog. Forse può essere di qualche interesse la testimonianza di uno che è rimasto incagliato a metà strada, con le orfanelle in braccio.

È assai dubbio che il mio blog sia un blog. Rubrica, bloc-notes, quaderno degli appunti, zibaldone di pensieri, raccolta di “pizzini” come quelli di Provenzano, diario minimo, diario infimo: chiamatelo come volete, ma converrete che un blog aggiornato con cadenza mensile usurpa il titolo di blog. Sul perché di questa anomalia – o malformazione: il blog ha ormai quattro anni, ed è abbastanza grandicello da tollerare epiteti ai limiti del politically correct – ho approntato un paio di diagnosi.

La prima è alquanto lusinghiera per la mia immagine, e dunque prendetela con beneficio d’inventario (all’autobiografia, si sa, è connaturata una tendenza autoapologetica): il mio blog è aggiornato così di rado per una sorta di contegno da chierico. Non ho voglia di immettere alcunché nella rete se non credo che ne valga davvero la pena, perché è stato scritto: “Di ogni parola oziosa che avranno detto, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt. 12,36). Oppure, se preferite una formulazione umanistico-ecologica della stessa idea: a passeggio per la Repubblica delle Lettere non ho voglia di gettare cartacce o imbrattare i muri. Confesso di avere un certo orrore della chiacchiera – la quale, diceva Goethe, segue come un’ombra l’impossibilità di comunicare.

La seconda spiegazione è assai più lesiva della mia reputazione, e forse più interessante per i temi del forum: in breve, il mio blog è un sintomo nevrotico. E badate: non in senso figurato, traslato, ma nella più schietta accezione freudiana. Se ricordate, Freud definiva il sintomo una “formazione di compromesso” tra impulsi contraddittori, alla stregua di un accordo economico stipulato tra un certo numero di contraenti (l’immaginoso medico viennese pescava metafore ovunque, perfino dalla scienza idraulica). Figuratevi un ampio tavolo da riunioni intorno al quale siedono un Super-Io severo e accigliato in abiti Biedermeier, un Es piuttosto burbero ma scaltro nel negoziare e petulante nelle sue richieste, e nel mezzo, sopraffatto dal chiasso degli altri due, un Io vacillante e imbarazzato che a seguito di una faticosa opera di mediazione porta le due parti a siglare un accordo: il sintomo, per l’appunto. E se potessimo gettare un’occhiata alle minute di quel contratto, vedremmo all’opera le tendenze rimosse e le rimoventi, che nel sintomo appaiono cifrate – tutte e due mezzo appagate, tutte e due mezzo scontente.

Ecco, il mio blog nasce da un accordo di questo tipo, e non già da un qualche entusiasmo per le “nuove frontiere della comunicazione”. A dirla tutta, non sono di quelli che vanno in estasi davanti alle potenzialità offerte dalla rete, dall’incontro tra i media, dai formati al confine tra l’una e l’altra forma di espressione; la multimedialità mi rende allergico quanto e più dell’ideale settecentesco della synthèse des arts o, dio ce ne scampi, dell'”opera d’arte totale” wagneriana; e il gergo che di solito accompagna questi entusiasmi – fatto di biologismi indigesti come mutazioni, ibridazioni e simili, tecnoanglicismi boriosi e abominii verbali di nuovo conio che gridano vendetta al cielo – mi ripugna se possibile ancora di più.

Appartengo anima e corpo al mondo del libro, all’orizzonte di quella che George Steiner ama chiamare bookishness. Tutte le mie attività, nel mio universo rigidamente tolemaico e bibliocentrico, orbitano intorno a quel curioso parallelepipedo pieno di segni strani e sono scandite sui suoi tempi esigenti e dilatati. Non dico che tutto “ciò che per l’universo si squaderna” sia stato creato per confluire alfine in un volume, come pressapoco credeva Mallarmé, in questo assai simile al dio dantesco. Ma è lì che, idealmente, vorrei finissero tutte le idee, le orfanelle di cui accennavo sopra.

Il mio blog è nato dunque come formazione di compromesso tra il libro che non sapevo e non potevo scrivere – il minaccioso Super-Io, lo sguardo implacabile della pagina bianca, la gorgone paralizzante del perfezionismo – e l’urgenza di scrivere qualcosa. Un lavorìo interiore che confessavo, larvatamente, in un vecchio post intitolato Lo stile e lo stilo, facendo mostra di parlar d’altro e d’altri. L’aspirazione, frustrata, era rivolta al libro; e non a caso fin dal primo post, che parlava di bibliomania, inzeppai tutto quel che scrivevo di riferimenti a libri, quasi a lanciare un segnale al Super-Io gutenberghiano, e a discolparmi: guarda che scrivo qui in rete, ma appartengo a te. È un po’ come qualcuno che venga colto sul fatto con l’amante e improvvisi una scusa del tipo: “D’accordo cara, sono a letto con lei, ma stavo pensando intensamente a te”. Poco credibile, ne converrete.

E infatti, con l’andare del tempo, il mio blog ha dimenticato di essere un sintomo, la compensazione di un libro impossibile, e si è quasi trasformato in terapia, in autoanalisi letteraria – in analisi dell’impotenza a scrivere e del potere meduseo e letale dell’ambizione al Magnum Opus. E vi dirò, ho imparato di più scrivendo qui che leggendo libri come The Writer and Psychoanalisis di Edmund Bergler, un tomo di trecento e più pagine, non privo di astruserie, sulla sterilità letteraria, i suoi perché e i suoi per come.

Pian piano il blog ha preso vita propria, si è affrancato dal suo peccato di origine ed è diventato il mio formato più congeniale, l’unico che io abbia davvero coltivato e affinato con l’andare degli anni e sul quale sia riuscito a scrivere in modo, per così dire, onesto. Nel frattempo, occorre dirlo, sono crollate un po’ d’illusioni. Il libro è divenuto ai miei occhi un oggetto sprovvisto di aura e votato a un destino, in parte già compiuto, di secolarizzazione. Che tardone, penserete voi: nel 2006 ho cominciato a capire cose che a Walter Benjamin erano già chiare negli anni Trenta. Mi torna in mente una vignetta (non ricordo di chi né di quando) che esprime tutto questo con un’ironia tutt’altro che superficiale – la vera ironia dei romantici, si direbbe: vi si può vedere una megalibreria di una grande metropoli, uno di questi palazzoni borgesiani dove sono stipati centinaia di migliaia di volumi, e al centro la minuscola sagoma di un uomo, che si fa accanto al commesso e gli confida: “Sa, anch’io ho scritto un libro”.

Oggi, forse, il formato-libro non mi intimidisce più. Ma sento che i demoni gutenberghiani, pur placati, reclamano la loro parte del raccolto di questi anni. Come accontentarli? Mi sono rimaste queste prose brevi, qualche decina in tutto. Il loro posto forse non è la rete, dove pure sono cresciute, ma nemmeno la carta stampata. Che farne, delle mie orfanelle?

A ben vedere, mi sento come il protagonista di Detour, un film degli anni Quaranta di Edgar Ulmer, che nel finale si trova intrappolato in mezzo a un’autostrada; non può tornare da dove è partito né può proseguire per la sua destinazione, perché in entrambi i luoghi verrebbe arrestato.

Written by am

novembre 29, 2006 a 7:40 PM

Pubblicato su guviblog

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