Spielberg e il treno fantasma per Auschwitz
“I sopravvissuti devono rassegnarsi al fatto che Auschwitz lentamente scivoli dalle loro mani sempre più deboli. Ma a chi apparterrà?”. La domanda dell’ungherese Imre Kertész, scampato ad Auschwitz e a Buchenwald, trova risposta in una contesa che risale a qualche anno fa, uno di quei casi così esemplari che la realtà vi appare trasfigurata in allegoria.
Si era nel gennaio del 1993, Steven Spielberg era nel pieno della lavorazione di Schindler’s List e progettava di girare alcune scene del film all’interno del campo di Auschwitz-Birkenau, come aveva fatto quasi cinquant’anni prima la regista polacca Wanda Jakubowska per L’ultima tappa. L’idea dispiacque ai leader del World Jewish Congress, per i quali trasformare il massimo centro di sterminio nazista in un set per un grande film hollywoodiano equivaleva alla profanazione di un luogo santo. Si appellarono così all’ambasciatore polacco negli Stati Uniti, annunciarono di dar battaglia presso il governo di Varsavia affinché l’autorizzazione alle riprese fosse negata; alla fine la spuntarono, e il sacrilego film tycoon fu cacciato dal tempio.
Ma Spielberg, maestro di espedienti, trovò il modo di aggirare almeno in parte il veto del WJC, proponendo un ingegnoso compromesso. Il convoglio dei suoi deportati immaginari sarebbe giunto fino all’atrio di Auschwitz-Birkenau, e si sarebbe arrestato rispettosamente in limine, per poi sbucare non già nel campo vero e proprio, ma in una fedele replica allestita nelle vicinanze. Quello che allo spettatore di Schindler’s List appare come un luogo unitario nasce dunque dalla giustapposizione di due luoghi distinti: il Lager reale e il Lager ricostruito per il cinema.
Ora che gli ultimi scampati allo sterminio nazista stanno scomparendo uno ad uno dalla scena, e che alle loro memorie vive e incarnate si sostituiscono le memorie di seconda mano del cinema o della letteratura, si è tentati di vedere nel treno fantasma di Spielberg una sorta di cavallo di Troia, un proditorio espediente per far sì che la storia si accampasse, saldamente e irrevocabilmente, nei territori della finzione. Via via che il tempo incalza, il convoglio dei deportati è sul punto di essere inghiottito per intero dal regno del cinema: ad esso apparterrà, piaccia o meno, la memoria di Auschwitz.
A ben vedere questo “passaggio delle consegne” è in corso già da decenni, ed è tutt’altro che pacifico e indolore. Gli ex deportati, che come dice ancora Kertész nutrono un’ambigua e commovente gelosia per la loro esperienza e si abbarbicano “all’esclusivo diritto di proprietà spirituale dell’Olocausto”, hanno intrattenuto con la settima arte un rapporto improntato per lo più alla diffidenza, a un malcelato sprezzo, quando non a un sentimento cocente di espropriazione. Ben di rado hanno accolto con favore i film che hanno cercato di divulgare la loro storia.
“Un film su Sobibor non può essere un film, oppure non può parlare di Sobibor”, sentenziava Elie Wiesel nella sua invettiva contro la popolarissima serie televisiva della Nbc Holocaust, rea a suo dire di trasformare “un evento metafisico in una farsa”. Wiesel detestava anche La scelta di Sophie, tanto che finì per togliere il saluto a William Styron, autore del romanzo da cui Alan Pakula trasse il suo film. Altrettanto severo fu Bruno Bettelheim, lo psichiatra scampato a Dachau e a Buchenwald, il quale prima tuonò contro l’intimismo dolciastro del Diario di Anna Frank di George Stevens, e qualche lustro più tardi si scagliò contro Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller, che attingeva abusivamente all’Olocausto il suo repertorio di spunti macabri e grotteschi. La condanna più celebre è però quella che Primo Levi riservò al Portiere di notte di Liliana Cavani, tanto più inappellabile perché espressa con il suo consueto garbo: quel film “bello e disonesto” tingeva di rosa la zona grigia, tradiva la storia facendo della relazione carnefice-vittima un oscuro nesso sadomasochistico in cui le parti sono, se non commutabili, complementari.
La battaglia – ad armi impari – tra la memoria viva dei deportati e le memorie inventate del cinema va avanti da trent’anni almeno, perché da allora sono i film il principale veicolo della memoria collettiva sui campi di sterminio nazisti. Il finale del film di Spielberg in cui i veri ex deportati, ormai vecchissimi e tremolanti, vanno a rendere omaggio alla tomba di Schindler, ciascuno sorretto dal braccio ben più vigoroso e aitante del giovane attore che lo ha impersonato, è immagine potente ma anche spietata di questo passaggio di consegne dalla generazione dei sopravvissuti a quella di chi l’Olocausto non potrà che immaginarlo.
Auschwitz come déjà-vu
e il potere straniante delle premonizioni
Se il ghost train a bordo del quale Spielberg ha portato (o deportato?) la storia nei territori della finzione evoca l’esaurimento della memoria viva dei testimoni, l’immagine dei due Lager affiancati e gemelli – quello reale e quello ricreato come set cinematografico – è emblematica di un’altra profonda distorsione della memoria che affligge la nostra epoca.
Chiunque si risolva oggi a visitare Auschwitz è subito sovrastato da una dolorosa evidenza: è impossibile, ormai, posare sul centro di sterminio uno sguardo vergine e disarmato. Auschwitz è ai nostri occhi uno scenario sinistramente familiare, quasi il luogo di un déjà-vu di massa. Nemmeno facciamo a tempo a varcare la cancellata, a sollevare lo sguardo verso l’insegna in ferro battuto Arbeit macht frei, che già ci si affollano innanzi agli occhi, quasi a interporsi tra noi e la percezione viva di quel che abbiamo intorno, le mille immagini già viste in film, documentari, fotografie. Ma la scritta all’ingresso era davvero così piccola? Perché allora nei film sembra così imponente? E l’Appellplatz, allora? Come facevano a stare in tanti in uno spazio che pare così angusto? Il Lager reale e il Lager della finzione si sovrappongono fino a confondersi, sicché l’uno fa da velo all’altro, o meglio lo avviluppa con il suo sudario d’immagini preformate.
Una delle reazioni più ricorrenti del visitatore di Auschwitz – che si aspetta di commuoversi e di straziarsi e si ritrova al contrario intontito e anestetizzato, al punto da maledirsi per la propria insensibilità e per le lacrime che non gli affiorano al ciglio – è il frutto di questa folla di immagini che si sono accalcate intorno ai luoghi dell’orrore quasi a formare un morbido strato protettivo che ottunde la nostra sensibilità. L’infelicissima sortita dello scrittore tedesco Martin Walser, che qualche anno fa confessò che quando s’imbatteva in tv in un film sull’Olocausto per istinto cambiava canale o spegneva l’apparecchio, prima ancora che tradire gli imbarazzi della Germania nel fare i conti con il passato, rivelava l’azione del potentissimo anestetico che le mille immagini di Auschwitz hanno inoculato nella nostra memoria.
Il passaggio del testimone, finita l’era dei testimoni, pone dunque un problema ulteriore. Davanti all’orrore divenuto domestico, alla morte che ha perso il suo pungiglione, come recuperare almeno un briciolo di quella sensazione così ricorrente nei racconti dei sopravvissuti, la sensazione di esser stati balestrati in un mondo alieno e indecifrabile, retto da leggi arcane, affatto irriducibile a quello dell’esperienza ordinaria? Come ritrovare e trasmettere, a fronte di questa massa di immagini che ci si porgono sempre come copia di immagini già viste, la straniante otherworldliness di Auschwitz?
Forse una chiave sta nel risvegliare la nostra capacità di immaginare Auschwitz non già come passato, come orrore censito e inventariato, ma come futuro, come uno dei possibili che pencola sulle nostre teste, come un serpente sempre acciambellato nell’uovo. In certo senso, quel che è vero per la bellezza è vero per l’abiezione: così come solo uno schizzo preparatorio della Gioconda potrebbe restituirci uno sguardo vergine su un’icona ormai consumata fino al midollo, allo stesso modo a scuoterci dal torpore sono le parole e le immagini che prefigurano Auschwitz, che lasciano intravedere l’orrore in forma di sinistre premonizioni che assillano una quotidianità banale; le parole e le immagini che, prima o dopo la catastrofe, ne hanno raccontato lo stato nascente, le faville inaugurali dell’incendio, il primo topo che annuncia la peste.
Nulla eguaglia il senso di angoscia che ispira, oggi, un film del 1924 come La città senza ebrei di Hans Karl Breslauer, tratto dall’omonimo romanzo di Bettauer (che peraltro finì ucciso negli anni venti dai nazisti), dove l’Austria promulga un editto per scacciare e deportare tutti gli ebrei, e poi ne sente nostalgia e li riaccoglie in un clima di festosa tolleranza. Più che l’ingresso nelle camere a gas mostrato in Holocaust o in Schindler’s List, ci fanno ancora rabbrividire gli uomini nudi che in Metropolis di Fritz Lang si incamminano come automi nelle fauci di Moloch.
Le scene del ghetto di Varsavia nel Pianista di Roman Polanski sono sì tremende, ma più ancora ci atterriscono quelle del romanzo Badenheim 1939 di Aharon Appelfeld, dove i villeggianti di una località che ha i contorni di un ghetto sono obbligati a registrarsi presso un non meglio precisato Dipartimento sanitario e poi messi su un treno diretto verso una Polonia descritta come un paesaggio da cartolina, e fino all’ultimo abbiamo l’impressione di non sapere come andrà a finire, anche se lo sappiamo fin troppo bene. Più straziante del fumo dei crematori mostrato in decine di film è la scena indimenticabile del romanzo di Gert Hofmann, Un uomo da evitare, dove il vecchio professore ebreo Veilchenfeld, perseguitato dai nazisti, dà fuoco a tutti i suoi indumenti, e dal piccolo rogo appiccato nel focolare della sua casa si leva una densa e maleodorante nube nera, che finisce per coprire tutta la città, tanto che gli abitanti si chiedono se potranno mai liberarsene.
Questo articolo è uscito il 23 gennaio su Il Riformista, con il titolo I lager gemelli di Spielberg e il telecomando di Walser non valgono la grottesca profezia di Bettauer del 1922. Qui il pdf dell’articolo.
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