La filosofia dei coca-chewer. Giorgio Agamben e i suoi rimasticatori
Giorgio Agamben ricorda uno di quei contadini boliviani che masticano foglie di coca alle pendici delle Ande. Prende una parola di antica o recente fortuna filosofica – sacro, profano, dignità, dispositivo, liturgia, ufficio – e si mette pazientemente a ruminarla. La mastica fino alla radice, nel senso proprio di radice indoeuropea (il suo rifornitore di fiducia è Émile Benveniste), e masticando partorisce visioni sciamaniche dal cui incanto è difficile riscuotersi, tanto che gli si è affollata intorno una variopinta comunità di coca-chewer. Il metodo non è nuovo: uno dei suoi maestri, Martin Heidegger, allucinò mondi meravigliosi ciancicando fino allo sfinimento la radice tedesca –stell, “porre”.
Ultimamente le ruminazioni di Agamben sanno sempre più di refettorio, e i suoi due libri più recenti, Altissima povertà (Neri Pozza) e Opus Dei (Bollati Boringhieri), con tutti quei riferimenti scritturali e quel latino ecclesiastico, al primo sguardo di un profano sembreranno facilmente opere teologiche o devozionali. Ma attenzione, “profano” non è parola che si possa spendere così alla leggera, quando si parla di Agamben: è una delle tante foglioline che ha ruminato fino a renderle irriconoscibili. Pochi mesi fa la Columbia University ha pubblicato The Agamben Dictionary, centocinquanta lemmi, dalla A di Abbandono alla Z di Zoè – passando per infanzia, gesto e, appunto, profanazione – che nell’uso agambeniano non significano quello che sembrano, e che “possono disorientare il nuovo lettore”. Volendo, con i mattoncini di quel lessico si può anche comporre un cadavre exquis surrealista: e così, per dirne una, la postfazione di Andrea Cortellessa a una raccolta di saggi letterari di Agamben portava l’abominevole titolo “Profanare il dispositivo”, che suona come il manuale d’istruzioni di un impianto termonucleare.
Le centocinquanta parole – genius, homo sacer, nuda vita – le vediamo migrare instancabilmente per riviste come Alias e Alfabeta2, e tra le pagine di tutta una famiglia di filosofi e saggisti che si estende ben oltre le storiche roccaforti agambeniane come Quodlibet o la collana “Temi” di Bollati Boringhieri. Capita anche che finiscano nelle robuste mandibole di certi rimasticatori abituali di tutti i gerghi: quelli della rivista online Carmilla, per esempio, per stabilire un accostamento (sconcio) tra Cesare Battisti e Stefano Cucchi, servirono in tavola un pasticcio gergale deleuziano-foucaultiano-agambeniano che li definiva entrambi “nuda vita” esposta al “desiderio microfascista del Potere”.
E così il lessico di Agamben, prosatore elegante ed eletto (quando vuole), si ritrova nel calderone da cui attingono i più verbosi radicalismi immaginari, tra la prosa atroce di un Toni Negri e le fumisterie cabarettistiche di uno Slavoj Zizek. C’è da augurarsi che la via della perfezione cenobitica lo dispensi da questi contatti con il secolo, e che la sua ascesa al Monte Carmelo lasci alle pendici la comunità dei rimasticatori.
Articolo uscito sul Foglio il 10 febbraio 2012 con il titolo Il lessico ruminante e allucinatorio di Agamben in centocinquanta lemmi.
“Profanare il dispositivo” sembra più un kamasutra per aspirapolveri. Per il resto, come sempre, fin troppo acuto e fin troppo elegante. Destinato a una gloriosa oscurità (ma in ottima compagnia).
Myo Dyo
febbraio 11, 2012 at 3:48 PM
purtroppo i rimasticatori sono sirene che incantano ed è bene che qualcuno osi svelarne le fanfaluche… senza magari arrivare fino al livello della velenosa requisitoria di Bernhard in Antichi maestri!
jonuzza
febbraio 11, 2012 at 6:01 PM
Mi poni sempre più in difficoltà nel dilemma che mi è stato posto davanti: collaborare o no con Alfabeta 2.
Edoardo l'Addolorato
febbraio 12, 2012 at 2:45 PM
Parole, parole, parole…
Vitiello crede nella provocazione. Giornalista giornalistissimo attento ai fatti filosofici e non alle ciance dette attraverso le parole (il logos!) crede anche di saperla piu’ lunga di Deleuze, Heidegger, Foucault e di quelli della Columbia. Il problema non e’ Agamben, anche Aristotele o Hegel o Popper “prendono parole” che poi altri “rimasticano” – pensa a quanti milioni di volte la parola “essere” e’ stata rimasticata nella storia della filosofia! Contro chi dunque pensa che la filosofia stessa sia tutta una stupidata e’ difficile e forse inutile argomentare riguardo un libro di filosofia. Peccato pero, perche’ se Vitiello avesse davvero letto le parole di Agamben avrebbe scoperto che almeno alcune di esse si riferiscono in modo concretissimo alla vita (anche a quella di Vitiello), alla politica, alla democrazia che lo stesso Popper (dubito che Vitiello nonostante il titolo del suo Blog ne sappia qualcosa) studiava e difendeva a parole.
pacionim@gmail.com
lauren gallaspy
febbraio 13, 2012 at 1:01 PM
Signor Pacioni, le do due notizie, da bravo giornalista: ho letto quasi tutto Agamben, da “Stanze” in poi (salvo il commento a San Paolo e poche altre cose), e quasi tutto Popper. Le basterà riaprire “La società aperta e i suoi nemici”, secondo volume, specie nella parte in cui Popper polemizza con Wittgenstein in materia di definizioni (ma anche tutta la polemica contro le filosofie oracolari), per constatare – sorpresa! – che a saper poco di Popper è lei.
unpopperuno
febbraio 13, 2012 at 1:14 PM
Appunto, la risposta di Popper a Wittgenstein (che poi, come lei sapra’, lo minaccia con un attizzatoio) “rimastica parole” – come si puo’ prescindere dalle parole quando si scrive o si parla o si fa filosofia? La mia (stizzita) critica al suo articolo e’ che lei non prende in esame quello che dice Agamben e che le considerazioni che lei fa potrebbero riguardare qualsiasi filosofo, chiunque usi la parola per argomentare le proprie idee. “Oracolari” e’ una definizione che Popper usa soprattutto contro il marxismo. In Opus Dei di Agamben, Marx non e’ mai citato e comunque, a parte Marx, non mi sembra che quella di Agamben sia una filosofia “oracolare” giacche’, come puo’ vedere in tutti i suoi libri, la pars destruens e’ quella che prevale sulla quella construens (per esempio, veda la fine di Opus Dei nella quale c’e’ un appello a pensare la legge, la morale e la politica con categorie diverse che Agamben stesso non ha pronte per insinuarle “oracolarmente” negli orecchi degli altri e infingardamente persuaderli). Inoltre, pochi sono i filosofi che si espongono (e si preparano) filologicamente come Agamben. Quanto a Wittgenstein, concordera’ con me facilmente che non ha nulla a che vedere con la “filosofia oracolare” e che, comunque la critica che Popper gli rivolge (come lei accenna) ha a che fare con la forma logica delle sue definizioni. Mi e’ sembrato, nel suo articolo, che piu’ che criticare Agamben, lei volesse semplicemente screditarlo, associando alla sua filosofia (il manifesto, Alias, Temi di Bollati Boringhieri, Quodlibet… quasi a voler indicare e rivendicare un trito e italiota anti-comunismo) cose che non riguardano quello che Agamben dice nei suoi libri. Capisco che negli articoli che scriviamo vogliamo essere brillanti, pero’ non sarebbe male anche, qualche volta, toccare il merito di quello che si critica – per amore dei fatti e delle idee che esprimiamo a parole. Per il resto, mi fa piacere che lei abbia letto quasi tutto Popper e Agamben. La prossima volta che se ne occupera’ magari imparero’ qualcosa di nuovo (o di diverso) su di loro, grazie alle sue parole. Stia bene.
lauren gallaspy
febbraio 14, 2012 at 6:01 PM
Be’, la storia dell’attizzatoio è controversa (c’è un libro intero, sull’episodio, e non si sa come andarono veramente le cose). E’ ovvio che non ho affrontato il pensiero di Agamben, in un articolo di tremila battute, ci mancherebbe. Ma l’anticomunismo non c’entra nulla, né le qualità e l’erudizione di Agamben, che non nego. Solo una modesta satira sulla disseminazione di un gergo e i suoi effetti comici, nulla più.
unpopperuno
febbraio 15, 2012 at 5:44 PM
Mi fa piacere sapere che delle “tremila” non erano tutte “battute”.
lauren gallaspy
febbraio 23, 2012 at 1:07 PM
Povertà: in questa satira abbonda. Non certo l’Altissima dei monaci agambeniani. Ma quanta miseria si espone, dopo il titolo (quello, almeno, riuscito). Dopo un buon inizio, la confessione fra le righe: di filosofia non ci capisco un’acca. Ed è bene che sia così! Altrimenti a che pro fare giornalismo!? Ma se inghiottire Agamben e, con la sua erudizione, gran parte della storia della cultura occidentale risulta indigesto: vi prego, i rutti in privato! Sappiamo bene che “la necessità può fare di ogni uomo un giornalista…” Per comprensione si chiuderà un occhio, l’altro no! Come si potrebbe, altrimenti, fare occhiolino a quelle nobili esigenze che lo sportellista, dalla sgargiante cravatta a pois, custodisce?
pietro gottardi
marzo 29, 2012 at 9:13 PM
Agamben potrà piacere o no, ma rimane un unicum significativo nel panorama della cucina contemporanea. Ricordo brevemente la sua parabola: dopo aver bussato per anni alle porte dei grandi ristoranti (l’odio per i vecchi cuochi comunisti che lo ostracizzavano è ancora vivo in lui), capita nel declinante Bistrot Einaudi, dove gli lasciano mettere le mani in cucina. Lì annuncia rivoluzionarie scoperte, a partire dalla tradizione delle Kneipen berlinesi, ma pasticcia un po’ e se ne va sbattendo la porta. Si fa notare per la sua reazione alla Nouvelle Cousine: portate di sole spezie e salse (“ma la ciccia dov’è?”, esclamerà un critico gastronomico). Negli anni perfeziona il piatto che lo renderà celebre: il Brasato all’Agamben. Al netto di qualche piccolo segreto che rimarrà tale, la ricetta è ormai nota. Un po’ del vecchio roux di Heidegger, sul quale si adagia mezzo chilo del taglio basso di Foucault, appena scottato e unito ad un soffritto di radici e rizomi vari di Parigi. Si copre a filo con un brodo di prime pagine e, verso la fine della cottura (più cuoce meglio è), si lega il tutto con tre bei cucchiai di fecola di patristica. E’ un successo enorme, soprattutto tra i giovani. Un grande ristorante di NYC lo chiama per parlare della sua cucina. Gli Americani ne vanno pazzi, continuano ad adorarlo anche quando se ne va (ancora una volta sbattendo la porta) dal Columbia Hotel. A Venezia insegna agli aspiranti artisti della cucina molecolare e si contende il successo con l’amico-rivale Toni Negri (ma le loro cucine sono abbastanza diverse da poter essere apprezzate dallo stesso pubblico, paradossalmente). E’ all’apice del successo, il suo nome corre sulle bocche dei gourmet più raffinati. E tuttavia, la cucina di Agamben non è tanto pensata per essere consumata, quanto per essere riprodotta all’infinito con infinite microvariazioni. Le schiere di giovani cuochi engagé hanno capito che il segreto sta tutto nell’uso del fondo, anzi dei numerosi fondi inventati (o riscoperti e rielaborati) dal grande chef romano: la Nuda Vita, l’Homo Sacer, il Dispositivo, lo Stato di Eccezione, e tutti i roux strutturati su qualche fantasiosa etimologia, due cucchiai di farina e un comunissimo brodo di pollo. Il ruolo del pollo è fondamentale!
Federico Gnech
marzo 30, 2012 at 3:05 PM
Ho letto abbastanza di Agamben da sapere che, come rilevano in molti, è debitore di pensatori più originali e forse più esorbitanti, nel senso derridiano.
Il problema in cui incorrono molti intellettuali, specie di sinistra (si vedano i recenti scivoloni di Ferraris riguardo a “realismo critico” e dintorni), è esattamente quello che essi imputano alla destra: di santificare, cioè, e di mitizzare le proprie figure di riferimento, come se, per aver scritto qualcosa (o anche molte cose) di pregio, fossero esenti da errori e grossolane mistificazioni a loro volta. Le cose non stanno affatto così. Ereditare il fardello della ricerca comporta abbandonare i mythoi della tradizione patriarcale nella stessa misura in cui, forse, se ne creano di nuovi (e in questo senso un po’ di autentica filosofia dialettica, nel senso goldmanniano, non farebbe male a molti sedicenti sinistrorsi).
Questo è forse ciò che più difetta ad Agamben, e a molti della sua generazione: essi non hanno saputo inventare linguaggi nuovi, bensì, riutilizzando quelli comodamente attinti dai propri maestri, hanno restaurato quella stessa tradizione di pensiero metafisica di cui, a parole, sarebbero dovuti essere i più accorti critici.
A volte, e oggi sempre più spesso, quella “cecità” di cui parlava Paul De Man colpisce proprio coloro che sostengono di vedere più lontano. Credono di ammirare paesaggi celesti e iperuraniche vastità, sono ancora, e sempre, incatenati nel profondo di una caverna, col volto ri-volto (volto di nuovo?) verso gli spettri del passato. Forse per questo la filosofia è morta: non per mancanza di stimoli, ma per accanimento terapeutico su di un paziente che godeva di ottima salute. Exeunt doctores.
Lorenzo
luglio 3, 2012 at 12:27 am