Non avrai altri jeans al di fuori di me. Scrittori e pubblicità
«Gli industriali che diventano poeti hanno come vessillo un quadro astratto», diceva Pier Paolo Pasolini nel film poetico-oracolare La rabbia. Qualcosa di simile potrebbe pensare il visitatore delle esposizioni d’arte contemporanea, sconcertato dall’aria di famiglia che spira tra il museo e il museum shop, dalla naturalezza con cui certe opere si prestano a essere stampate su una T-shirt o su un servizio di piatti. Strano destino: quanto più l’arte tenta di farsi esoterica, tanto più si confonde con il panorama di immagini in cui siamo immersi. Non per caso, osservava Jean Clair, i nuovi musei s’ispirano al modello del Blockhaus, «fortezza o casamatta, rinchiusa e quasi sotterrata», o sono strutture trasparenti in vetro e acciaio, inondate di luce, dove è abolita ogni separazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori.
Con la letteratura le cose sono un po’ diverse, ma se non si sta attenti si può far confusione tra il poeta che canta «ecco ecco un cocco», il propagandista di Eisenhower che esclama «I Like Ike» e il pubblicitario che sussurra «J’adore Dior». In questo caso, però, Pasolini ci è di poco aiuto. Articolo uscito il 19 febbraio 2012. Continua a leggere su La Lettura
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