Il potere terribile di giudicare. Sul “Diario” di Dante Troisi
Ci sono morti che è come fossero vivi, tanto imperiosa si avverte la loro presenza; e ci sono vivi che deambulano nel nostro tempo con le orbite spente, come fossero morti. Lo stesso è dei libri, tutto sta a esercitare il giusto discernimento degli spiriti. Due note recenti di Andrea Camilleri non rivelano un buon discernitore. La prima è la prefazione ad Assalto alla giustizia (Melampo), un pamphlet di Gian Carlo Caselli sulla politica e la delegittimazione della magistratura, da cui emerge il ritratto stentoreo di un giudice combattente, lancia in resta, che sa sempre dov’è il bene e dov’è il male. Uscito in libreria a Berlusconi caduto, ha la stessa irrimediabile vecchiaia del giornale di ieri, e gli elogi di Camilleri all’«importante volume» non bastano ad allontanare l’impressione che il tempo abbia già dato il suo verdetto. La seconda nota è la postfazione al Diario di un giudice di Dante Troisi, un libro uscito nel 1955 che Sellerio riporta ora in libreria. Una postfazione diligente, antiquaria, filologica se non necrologica, tutta al passato remoto. Eppure il libro di Troisi non è vecchio, è semmai — direbbe Friedrich Nietzsche — «inattuale»: non è a misura del proprio tempo, e forse per questo ne rivela i segreti. Soprattutto, circonda di un cono di luce abbagliante un tema che è di questi giorni come di tutti i giorni, passati e futuri: la responsabilità di chi accede al potere più terribile, il potere di giudicare i propri simili. Articolo uscito il 24 marzo 2012. Continua a leggere su La Lettura.
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