Guido Vitiello

L’inverno di Fortini. Di Matteo Marchesini

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In libreria ho iniziato a leggere l’ultimo volume di Asor Rosa, Le armi della critica. È stato come cedere a un vizio, che come tutti i vizi è un po’ sadico e un po’ masochista: volevo gustarmi amaramente l’ennesima prova di prosa bislacca e di confusione ideologica di un anziano mandarino che mantiene un credito inspiegabile. L’ho letto davvero molto, anzi troppo, anch’io. Ho studiato il primo radicalissimo Asor, quello che aveva ancora una sua grezza ma spietata consequenzialità, e che macinò operaismo fino agli anni Settanta; poi lo storico letterario pomposo e sordo; quindi il nuovo estremista senza bussola che ha svelato l’inconsistenza dei suoi discorsi precedenti. E ora, eccomi ad aprire questo nuovo libro, dove ritrovo roba già letta in Intellettuali e classe operaia (1973). Ma il tutto è condito da una “prefazione storica”, insieme goffamente prolissa e rozzamente stenografica, che sembra messa lì apposta per solleticare la mia perversione. Asor vi descrive il suo percorso di dieci anni, dal ’60 al ’70, dalla giovinezza alla prima maturità. E come al solito, le perle di comicità involontaria non si fanno attendere. A cominciare dal sottotitolo: “Scritti e saggi degli anni ruggenti”. Ruggenti? Ecco un tipico esempio dello stile asorrosiano: che non è serio, ma non sa nemmeno essere ironico. La sua cifra è la grossolanità impudente: forse crede davvero di aver ruggito? Dalla prefazione parrebbe di sì. Asor infatti non si limita a ragguagliarci sulla temperie culturale in cui si formò (l’operaismo di Tronti, l’antigramscismo, ecc.), ma vuol delineare nientemeno che la “storia di un’anima”: dandoci conto di come, quando e con quali sentimenti ha accostato i grandi autori occidentali. Intanto, sempre per stare a ciò che non è serio ma non riesce neppure a esser faceto, veniamo a sapere che si ritiene “l’unico uomo al mondo ad avere letto tutto Marx e tutto Dante”. Però, subito dopo confessa che Marx fece così colpo sulla sua giovane mente perché né il liceo né l’università avevano avuto cura di informarlo dell’esistenza di Kant. Ma il meglio arriva nel capitolo su “Asor e Leopardi”: che lo colpì molto (sentite la finezza da italianista) per il “sublime dell’espressione immediata”, ma forse anche perché non conosceva Hölderlin e Novalis (che c’entrano con Leopardi?). Il rampante Alberto lesse “Dolce e chiara è la notte e senza vento”, e per lui quel verso significò subito che “un altro mondo era possibile”: dal conte Giacomo a Luca Casarini il passo fu brevissimo. In chiusura, poi, ribadisce di sentirsi ancora un fiero antagonista della nostra società: società che infatti “diffida di me, nonostante la lunghissima frequentazione, e me lo dimostra in molti modi”. Accidenti! Nonostante la lunghissima carriera accademico-politico-mediatica? E se non avesse diffidato di lui, questa società, che avrebbe fatto? Lo avrebbe portato al Quirinale?

Ma in questa “prefazione” o involontaria autodenuncia, ciò che ha fermato il mio sguardo è la frase in cui l’autore confessa di aver compiuto una “vera e propria vigliaccata” nei confronti di Franco Fortini. Già, perché negli anni Sessanta Fortini, se da un lato combatteva contro l’engagement ancora populista, dall’altro si sforzava di proteggere lo spazio adatto a un’altra letteratura, a un’arte che fosse davvero l’annuncio “in negativo” di un futuro diverso. Per Asor, l’arte era invece quella fatta dai grandi borghesi reazionari: al di là c’era solo la classe operaia, da lui immaginata come un’orda barbara che non doveva aver nulla a che spartire con la cultura. Terze posizioni non si davano. Risultato: a Fortini chiedeva di suicidarsi come intellettuale. Fortini ovviamente non lo fece; ma da allora subì il ricatto di questo astratto estremismo operaista, che aumentò la sua tendenza all’autocastrazione.

Ora Asor parla di “vigliaccata”, ma non dà al “compagno di strada” l’unico risarcimento dovuto: e cioè una rilettura adeguata della sua opera. Anche perché una tale rilettura sarebbe un suicidio per lui, dato che le migliori pagine di Fortini sono un’inesausta denuncia dei privilegi acquisiti proprio dal ceto intellettuale di cui Asor fa parte. Comunque, leggendo la “prefazione storica”, ho pensato che quello asorrosiano non solo non è un risarcimento, ma sembra anzi una nuova pernacchia a Fortini. Non è un’impudenza, da parte sua, pubblicare l’antologia di un decennio, quasi a riecheggiare il titolo del libro più bello di Fortini, Dieci inverni, che è anche il testo fortiniano meno capito dai nostri critici marxologhi? Davanti a questo pensiero ho chiuso Le armi della critica, sono uscito dalla libreria, e mi sono detto che in un’Italia in cui è ormai praticamente un autore inedito, è ora di risarcire Fortini con un vero ritratto, e soprattutto di contrapporre al decennio di formazione asorrosiana quello di formazione fortiniana. Ma per farlo, intanto, bisogna chiedersi: a poco meno di vent’anni dalla morte, chi legge Franco Fortini, e come? Direi che tra gli intellettuali prevalgono due forme di rimozione, che si riflettono nella quasi totale ignoranza del pubblico più vasto. O si considera Fortini un vecchio codice che non vale la pena decifrare: e così si confermano le critiche che lui rivolse ai suoi contemporanei, già inclini alla semplificazione e al culto delle personalità mediatiche (si vedano le pagine dedicate al suo fratello-avversario, il sempre stracitato Pasolini); oppure, viceversa, lo si venera tradendone l’autonomia intellettuale: e si sbandiera, come Asor Rosa e molti altri, un marxismo ridotto a petizione di principio, mentre si lascia cadere proprio la sua eredità più viva, cioè la continua “verifica dei poteri” nel campo della cultura. Ma così, i “fortiniani” trattano Fortini appunto come fosse Asor o Toni Negri, riducendolo al suo più effimero timbro apocalittico o settario; e quando poi si occupano di letteratura contemporanea finiscono per esaltare proprio quei prodotti demagogici inquinati dall’engagement dozzinale già censurato da Fortini nel Metello pratoliniano: e li esaltano, s’intende, solo perché sono contrabbandati come “antagonisti”, o perché parlano della Realtà stereotipata dell’attualità giornalistica. Invece occorre ribaltare la prospettiva.

Se molte delle risposte politico-culturali che Fortini diede sembrano oggi irriproponibili, e risentono dei ricatti di una ideologia caduca, le domande che quell’ideologia lo aiutò a formulare sono più che mai attuali – e appunto per questo vengono rimosse. Accennavo al fatto che, per un paradosso eloquente, il libro in cui queste domande risuonano più chiare è la sua raccolta saggistica cronologicamente più lontana: Dieci inverni, uscita nel 1957 dalla neonata Feltrinelli. Qui il critico e il lirico s’incontrano in pagine di raro equilibrio: l’autobiografia è ancora limpida, non esorcizzata come lo sarà in futuro, e gli interlocutori ancora reali – compagni in carne e ossa. Purtroppo Dieci inverni non circola più da decenni. Anche nel bel Meridiano a cura di Luca Lenzini il testo è stato smembrato. Gli appunti che seguono valgano dunque come appello agli editori perché ripubblichino la raccolta del ’57.

Ma chi era, allora, il quarantenne Fortini, subito prima di essere eletto a padre della Nuova Sinistra e di venir “ricattato” da Asor Rosa? Nel ’47, il primo dei “dieci inverni”, era ancora un letterato fiorentino cresciuto alla scuola antiermetica di Noventa, uscito dalla Resistenza religioso e marxista, e sbalzato nella Milano del “Politecnico” di Elio Vittorini. Mentre si profilava la guerra fredda, sostò nella cittadella di Adriano Olivetti, e masticò l’amara politica del Psi fino al ’56, alle speranze del XX congresso e alle disillusioni di Budapest. Intanto traduceva Eluard, Brecht, Proust, Kierkegaard, Weil. Diventava un instancabile animatore di gruppi intellettuali, e si conquistava una prosa da robusto saggista, assimilando le speculari lezioni di Lukács e Adorno. Ma nel ’57, Fortini è ormai un uomo che sente chiusa per sempre una stagione della propria vita. Tra il rosso colante della copertina di Albe Steiner e la prima pagina, il leitmotiv storicista del libro ci viene significativamente proposto con due citazioni tratte dagli esponenti delle discipline più astoriche: matematica e teologia. La prima citazione: “Qui ne la ressent pas profondément, cette haine du présent, n’a pas vraiment l’amour de l’avenir” (Évariste Galois). La seconda: “La pensée de l’avenir est une tentation fine et dangereuse de l’ennemy, contraire à l’Evangile, et capable de tout perdre…” (Martin de Barcos). L’accostamento delle due contraddittorie affermazioni evoca subito davanti al lettore il demone che anima le pagine seguenti: quello di una Dialettica calata fin nelle minime pieghe della Storia. Da una parte, ammonisce Fortini, bisogna odiare il presente e amare l’avvenire. Ma dall’altra parte questo amore è una tentazione diabolica che ci può perdere – perché è sempre qui e ora, e non nel ricatto di un futuro governato da forze estranee, che dobbiamo pensare le cose a fondo e responsabilmente agire. Non possiamo cedere ai facili anarchismi alla Camus, ma neanche essere dei puri stoici.

Sul piano politico, l’autore di Dieci inverni fa i conti con un Novecento che ha alle spalle vent’anni di involuzione staliniana del comunismo, a partire dalla guerra spagnola e dai processi di Mosca. Davanti all’interminabile teoria di cadaveri che questa storia ha prodotto, Fortini rifiuta ogni cinica alzata di spalle; ma rifiuta anche d’invocare improbabili e virtuiste palingenesi, e anzi vede già nella destalinizzazione una rimozione speculare a quella imposta dallo stalinismo (“Ragazzi, per mostrare i miei nastrini antistalinisti non ho bisogno di rivoltare la giacca”, dirà in un epigramma). Ciò che non smette mai di chiedere, irritando per il testardo rigore i suoi compagni (durante il viaggio in Cina, l’avevano soprannominato je voudrais savoir), è “solo” che l’orrore venga pubblicamente vagliato, che non sia rimosso. “Possiamo accettare che ci vengano richieste sofferenze, fame e morte per il raggiungimento di un fine che è esterno a noi”, scrive con una frase molto umana e umanistica che è agli antipodi dello spregiudicato cinismo asorrosiano, “ma non potremo accettare le sofferenze senza la verità”. Specie quando il socialismo deve inventare forme nuove di militanza, perché “non si incarna ancora, e forse più, in alcun partito o nazione”. Ma la richiesta più assillante che l’autore di Dieci inverni rivolge al marxismo è quella di fare i conti col male naturale.

Mentre Calvino concepiva per la Giornata d’uno scrutatore una scena memorabile sul divario tra Natura e Storia, ambientata nel seggio elettorale del Cottolengo, Fortini insisteva sulla esigenza d’introdurre nel pensiero marxista il tema dei limiti invalicabili della vita umana, la morte, la malattia e la follia, proprio ciò che gli operaisti alla Asor Rosa poi disprezzeranno: “i minorati psichici, gli asociali, gli “elementi instabili in seno alla classe operaia” (non è questa la formula?), gli ammalati, quale posto occupano nella antropologia marxista? Dite pure che io vado frugando nei residui dell’irrazionalismo: ma dovete pur rispondere. Quella di Hitler, quando sopprimeva i deficienti e gli zingari, era una risposta a suo modo coerente. Sì, se il negativo è irrazionale, lo sono anche malattia e morte; ma sappiamo che così non è”. Se il tema della morte s’infila in ogni spiffero del discorso, Dieci inverni si sofferma però soprattutto sul contesto da cui dovrebbe uscire il testo di quest’antropologia marxista non più monca: ossia il lavoro culturale, la terra di mezzo dove si mescolano arte e politica.

In primo luogo c’è il bilancio sull’esperienza del “Politecnico”. Dopo la polemica tra Vittorini e Togliatti, Fortini capisce che ha vinto di nuovo la discorde concordia della separazione dei ruoli. Nel suo integralismo, ritiene che “cultura e politica sono la medesima cosa, espressa con mezzi diversi (…) ogni volta che un pensiero non ha mani o le ha deboli o che le mani non han pensiero o lo han fiacco, saranno un astratto “pensiero” ed una volgare “politica””. L’errore di Vittorini è quello di voler tornare a pascolare nel cortile umanistico, dietro cui si nasconde sempre il vecchio alibi autonomista delle caste intellettuali. Proponendo un modello contestatorio spontaneistico e approssimativo, si è adattato alle regole del gioco di Togliatti, ben deciso a “coltivare” gli umanisti per poi maltrattarli dalla macchina di regia della realpolitik. Se la frattura vittoriniana si colloca all’inizio degli “inverni”, l’avvio del dialogo con Pasolini si collocherà alla fine: ed è significativo che le critiche mosse al poeta-opinionista-cineasta siano dello stesso tenore. Né Vittorini né Pasolini vogliono analizzare per tempo le mutazioni portate nella retorica progressista dall’industria culturale: accettano la divisione di ruoli tra burocrazia partitico-populista e libertinismo decadente-fiancheggiatore, che col boom si ridurrà all’alternativa tra falso ribellismo e umanesimo manageriale. Entrambi rifiutano di rispondere del loro lavoro in termini di linguaggio, destinatari, diffusione, contesto extra-estetico: fingono di poter parlare a tutti, in ogni forma, da ogni microfono, senza mediazioni. Sulla prassi di Pasolini, Fortini troverà poi definizioni maligne ma eccellenti: ad esempio osservando che quando gli fanno notare la bruttezza di certi suoi versi, il poeta delle Ceneri si difende invitando a guardare all’analisi sociologica che vi è contenuta; ma se gli si fa notare che questa analisi è sbagliata, ecco che torna a nascondersi dietro l’alibi del linguaggio en poète. Del resto, tra gli intellettuali progressisti del dopoguerra ha prevalso quasi ovunque la volontà di “non sottoporre a critica le condizioni materiali del proprio lavoro”. Ne è derivato il paradosso per cui “la critica che ogni militante marxista compiva delle condizioni della cultura nella società capitalista non veniva mai rivolta alle condizioni che le organizzazioni culturali dei partiti di sinistra ponevano alla loro stessa attività; così come i criteri marxisti (…) non venivano applicati ad interpretare la politica sovietica”.

Nasce allora la scissione delle coscienze che partorirà i “ruggenti” Asor Rosa: si parla di rivoluzione, ma intanto si occupano a maggioranza gli enti locali e le università. Come militanti si predica Zdanov, ma come professori Freud o Carnap. I dirigenti dicono la verità solo nei conciliaboli, gli esperti solo nelle riviste specialistiche: è il tempo dell’accademismo miope e della cattiva divulgazione. Invece Fortini pretende che gli intellettuali si sentano politicamente responsabili di ogni dettaglio del loro lavoro. Lo scandalizza il fatto che smettano di esercitare la critica della falsa coscienza, sempre sbandierata davanti al Sistema Capitalistico, proprio quando si tratta di guardarsi allo specchio e di dirsi quali compromessi col Sistema comporta per loro l’utilizzo di certi media, di certi meccanismi editoriali e distributivi, di certe semplificazioni linguistiche. Una pratica di rimozione in cui gli Asor Rosa e i Sanguineti sono stati maestri, occupando di volta in volta le sedi istituzionali più potenti e insieme asportando dal loro presunto marxismo la necessaria critica delle condizioni materiali del loro lavoro accademico o partitico.

Da quel 1957, e dalla dissoluzione delle filosofie della storia, la situazione di malafede politica e culturale denunciata in Dieci inverni non ha fatto che crescere: per questo le richieste di integrità umana agitate nella raccolta sono più vive che mai. La statura di Fortini sta nel fatto che può essere letto con profitto perfino al netto della prospettiva socialista, così fondamentale nella sua opera. Perciò oggi possiamo dire di lui quel che lui diceva di Gramsci: e cioè che per onorarne le intuizioni occorre tradirne la lettera. Occorre cioè continuare a prendere fortinianamente in parola ogni affermazione o situazione, e domandare che se ne risponda, portando quotidianamente a coscienza le condizioni dell’operare proprio e altrui. Ma nello stesso tempo bisogna sapere che sussiste ormai un divario enorme tra l’uso politico degli strumenti critici e una critica della società portata a fondo, ossia che il discorso immediatamente politico e quello culturale non coincidono e non si sovrappongono più nemmeno alla grossa. Basta vedere quanti scrittori sedicenti “progressisti”, dai megafoni dei grandi media, pontificano dozzinalmente su guerre o criminalità fingendo di essere una vox clamantis in deserto, senza mai raccontarci quali siano i prezzi e le violenze del mercato editoriale o giornalistico, i rapporti tra questo mercato e i mali più visibili della nostra società, e insomma la realtà che li ha trasformati in starlette. I libri di Fortini, una volta riaperti, chiedono a loro come ai politici di fare i conti con la propria malafede, di verificare giorno per giorno il rapporto tra le parole, le opere e le strutture di potere. Ma è difficile che intellettuali e governanti passino più di un’ora con le sue pagine, anche se qualche editore ripubblicherà Dieci inverni. Infatti, come osservò Alfonso Berardinelli, Fortini è uno scrittore che “se ha qualcosa di immediatamente riconoscibile, è (…) la sua capacità di respingere sia il letterato che il politico professionali: e quindi di esserne respinto”.

Non delinea, questa definizione, una figura esattamente opposta a quella di Asor Rosa? O forse i lunghi e fortunati rapporti di Asor coi professionisti delle grandi imprese accademico-editoriali e coi professionisti del funzionariato di partito celano sotto sotto una diffidenza della società nei suoi confronti così raffinata, così segreta da rimanere invisibile ai nostri deboli occhi?

Matteo Marchesini

Articolo uscito sul Foglio il 7 aprile 2012

Written by Guido

aprile 18, 2012 a 7:41 PM

Pubblicato su Il Foglio, Matteo Marchesini

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