Superior stabat agnus. Critica della vittima
Non so quali siano gli effetti tossicologici del Popper, dottore, ma c’è una pagina de La società aperta e i suoi nemici che mi ronza nella testa da vent’anni e non vuole uscirne, devo preoccuparmi? È quella in cui il filosofo mette allo specchio i partiti che parlano da lupi e agiscono da agnelli e i partiti che parlano da agnelli e agiscono da lupi: un piccolo chiasmo che vale un trattato di scienza politica. E va bene che Daniele Giglioli assume droghe ben più pesanti delle mie (un cocktail micidiale di Zizek, Agamben, Badiou, Rancière, Butler, roba che stenderebbe un cavallo) ma il suo Critica della vittima, appena pubblicato da Nottetempo, è sempre lì che torna, alla favoletta di Fedro e alle sue inesauribili implicazioni politiche. Superior stabat lupus, ma per divorare impunemente l’agnello non devi ululare, devi belare più forte di lui, vantando nei suoi confronti un credito morale antico, acceso da non importa quale offesa. Travestirsi da agnellino o al limite (variante burlesque) da nonna di Cappuccetto Rosso è il sogno di qualsiasi lupo; perché agli occhi del mondo la vittima è per definizione irresponsabile, non ha di che discolparsi e giustificarsi, la sua identità si riassume in una proprietà passiva – l’aver subìto un’offesa – che ingiunge la riparazione, il risarcimento, o a esser maliziosi il pagamento di un riscatto morale.
Il tema è stato assai dibattuto nell’America degli ultimi vent’anni, intrecciandosi alla questione del “politicamente corretto” e delle minoranze etniche, religiose o sessuali (spesso oggetto di discriminazioni tutt’altro che immaginarie) che si sono affacciate sull’arena pubblica nella veste di vittime ansiose di riparazione; e molto se ne è discusso pure in Francia – da Todorov a Bruckner, da Girard a Soulez-Larivière, quello del circo mediatico-giudiziario – dove Jean-Michel Chaumont ha coniato la felice formula “concorrenza delle vittime”. Il libro di Giglioli, che rende conto di questo dibattito e propone un’ambiziosa critica politica, filosofica e antropologica, è dunque il benvenuto; anche perché in Italia, tutto sommato, non si era scritto granché. Disattenzione stupefacente, a giudicare dal grado di pervasività che la retorica della vittima ha nel nostro paese. Non parlo del belato quotidiano che sale dalle interviste o dai talk show, per il quale occorrerebbe affiancare alla Critica della vittima una ben più feroce Critica della pittima. La specialità italiana è un’altra: qui il vittimismo non è tanto affare di gruppi marginali che premono per ottenere udienza e riconoscimento, quanto lo strumento retorico di chi sulla scena pubblica è saldamente piantato, per giunta in posizioni di potere. Ho visto un re sarebbe un inno eccellente, perché il vittimismo è la nostra grande ideologia trasversale, a cui da sempre fa eco la satira facilotta sul “chiagne e fotte”.
Forse parlo sotto l’effetto del Popper, ma perché non divertirsi a osservare l’intero panorama politico come una selvaggia “concorrenza delle vittime”? C’è il piagnisteo berlusconiano e il piagnisteo grillino, c’è il piagnisteo dei sindaci e il piagnisteo dei partitini, c’è il piagnisteo dei sindacati e il piagnisteo degli industriali. Tutte le corporazioni piangono. E la cosa più incredibile, e più inavvertita, è che in Italia chi ha saputo meglio occupare la casella strategica della vittima non è neppure un partito, ma addirittura una funzione dello Stato: quella magistratura che, senza dover cedere neppure un briciolo del proprio potere, ha saputo accreditarsi presso l’opinione pubblica come cittadella assediata a cui tolgono tutto, perfino la carta per le fotocopie. Un’allucinazione collettiva degna di Matrix, una visione che neppure un’overdose di Zizek tagliato con Agamben potrebbe generare.
Ma per chi come me inala solo il Popper, tutto sta a capire, in queste guerre, chi azzanna belando e chi, pur ululando, finisce sbranato. Assegnate voi le parti, ché tanto la favola non dimostra un bel niente.
Articolo uscito sul Foglio il 1 marzo 2014 con il titolo La vittima che azzanna
Visto che ogni tano li citi, ricordiamo l’articolo di F&L sulla lagna come modalità essenziale della comunicazione moderna.
eliaspallanzani
marzo 2, 2014 at 1:18 PM
Egregio sig. Vitiello,
la citazione di “Ho visto un re” non è corretta, perchè in quel testo lo jus lagnae non è universalmente distribuito (e praticato): ce lo hanno solo i ricchi ed il povero è privato del diritto di lagnarsi.
P.s. è vero che nei Tribunali non c’è carta per le fotocopie, che nelle scuole (pubbliche) non c’è carta igienica che in molti ospedali (pubblici) devi portarti le lenzuola da casa, per fortuna non siamo ancora obbligati a ridacchiare
david
marzo 3, 2014 at 3:39 PM
La citazione è corretta, visto che parlavo appunto di potenti e potentati che si lagnano. Il discorso della carta, invece, ci porterebbe lontano: un’altra volta.
unpopperuno
marzo 3, 2014 at 3:43 PM
l’argomento della canzone non sono i potenti ed i potentati che si lagnano, è la repressione; a Lei sembra adatta a me neanche per sbaglio (credo sia la differenza tra essere liberale e libertario)
david
marzo 3, 2014 at 4:00 PM
Ho sempre simpatizzato per un partito che si diceva liberale, liberista e libertario. Dunque la differenza non mi riguarda.
unpopperuno
marzo 3, 2014 at 4:15 PM
Io sono di due secoli fa, per me il liberismo libertario non esiste.
david
marzo 3, 2014 at 4:42 PM
La favola insegna ai piccini che il potere è menzogna. Quindi stiano in guardia! Partecipa della retorica del potere anche un libro come “Critica della vittima”, il cui titolo è sbagliato, poiché il libro è in realtà una “critica della pseudo-vittima”. Chi critica una vittima vera si pone dalla parte del carnefice e andrebbe considerato come un essere ignobile. Immaginate uno che critichi Anna Frank accusandola di vittimismo. O che critichi Falcone e Borsellino accusandoli di vittimismo. Ecco, appunto.
Rachele Fink
settembre 20, 2014 at 3:12 PM