Cinquantottini
Il Sessantotto è finito a carte quarantotto quando quelli del Settantotto hanno impugnato la P38. Meno male che c’è stato anche il Cinquantotto. Non è affare di cabale numerologiche o, peggio ancora, di reducismi generazionali. Quando parla di Cinquantottini (Marsilio), Vittorio Emiliani allude a qualcosa di molto preciso: i ragazzi nati tra il 1925 e il 1940 che animarono l’Ugi, l’Unione Goliardica Italiana, associazione universitaria che servì da scuola di formazione politica per tutta una classe dirigente laica, liberalsocialista ed europeista che fece grandi riforme – sui diritti civili, sul lavoro, sulla cultura – e coltivò con un dispetto filiale mai velleitario la sua indipendenza da chierici rossi e neri. Per l’Ugi passò Marco Pannella, e con lui lo stato maggiore del nuovo Partito radicale (destinato a diventare, per inciso, un’altra grande nursery politica). I Cinquantottini ebbero la fortuna di crescere sulla tabula rasa del dopoguerra, senza conti in sospeso con il fascismo e refrattari all’egemonia delle fazioni ideologiche accampate in Italia. Non per caso alcuni di loro – come Gino Giugni – finirono, vent’anni dopo, nel mirino della P38. Sembrano storie vecchie, ma ci riguardano da vicino. Perché la nostra nuova classe dirigente ha avuto una fortuna tutto sommato simile, quella di affacciarsi alla vita politica dopo il cataclisma del 1989. Potremmo chiamarli Novantottini, i nati tra il 1975 e il 1990 fieramente indifferenti alle questioni su cui si scannavano i loro padri. Ma – questo è il punto – non ci sono più palestre come l’Ugi, e men che mai nelle Università, dove si celebra il deprimente rito stagionale delle occupazioni all’insegna di slogan ripetitivi (cambia solo il nome del ministro). Dice bene Emiliani, nato nel 1935: non è un problema, è il problema dei problemi. IL, maggio 2016
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