I pentiti salveranno il cinema italiano
Dimenticatevi di Franceschini, di Rutelli e della nuova legge sul cinema; e dimenticatevi pure di Rosy Bindi che va a giocare al dottore con Totò Riina nel carcere di Parma: ho una proposta serissima per salvare, in un colpo solo, il cinema italiano e il diritto dei detenuti a un trattamento conforme al senso di umanità. In breve, si tratterebbe di affiancare a ogni squadra di sceneggiatori un pentito di mafia, secondo lo schema sperimentato da Woody Allen in Pallottole su Broadway, quel film dove un sicario mafioso scopriva in sé un grande talento teatrale e stravolgeva, fino a riscriverlo per intero, il copione di un drammaturgo mediocre.
L’altro ieri, su questo giornale, Luciano Capone ha ripescato dalle conversazioni del boss Giuseppe Graviano una scena che da sola vale una fiction, l’incontro tra Gianfranco Miglio e Nitto Santapaola ’u Licantrupu. Il caso vuole che io avessi da poche ore finito di vedere 1993, la serie tv – “da un’idea di Stefano Accorsi”, per antonomasia – dove pure il professor Miglio aveva un piccolo ruolo. E però, che caricatura grossolana! Un ometto azzimato e strambo, decisamente losco, con un ghigno mellifluo a metà tra il tenente Kojak e Nosferatu. Patacca per patacca, se gli sceneggiatori fossero stati assistiti da un Graviano, avremmo potuto aspettarci qualche alzata d’ingegno visionario, qualche fantasia spericolata. Fidatevi, con l’aiuto di un mafioso di talento, un bell’affabulatore di quelli che Falcone incriminava per calunnia, in 1993 non avremmo respirato quell’aria di chiuso che vizia tante fiction sul nostro paese – in una formula: l’Italia vista dall’asse Trastevere-Testaccio collegato via cavo con l’America di Mad Men e di House of Cards.
Per esempio, una delle scene migliori del Divo non l’ha scritta Paolo Sorrentino, ma il pentito Balduccio Di Maggio: è il bacio accaldato e flemmatico tra Andreotti e Riina sulle note di una canzone di Beth Orton. Senza quell’immagine, giura Sorrentino, Il Divo non sarebbe mai nato: “Altro che dubbi sulla sua opportunità, girare quella scena mi ha spinto a realizzare il film. Dal punto di vista simbolico, l’idea di un abbraccio tra il potere e il contropotere è il massimo”. Un modo diagonale per riconoscere che Di Maggio, attendibili o meno che siano le sue testimonianze, è uno sceneggiatore di razza. Avesse lavorato lui gomito a gomito con Sorrentino, al posto di Contarello, avrebbe potuto fare della Grande bellezza un buon film, e forse avrebbe impedito a Sorrentino, con i metodi persuasivi che Cosa nostra ha affinato in anni di onorata attività, di imbarcarsi in progetti come Youth. Ma è inutile piangere sulla pellicola girata, pensiamo piuttosto a quel che si può fare in futuro.
Invece di collaborare in modi più o meno indiretti, io dico che giudici e sceneggiatori potrebbero farlo alla luce del sole. Un magistrato cinefilo, il procuratore Scarpinato, scrisse anni fa su MicroMega che gli atti dei processi sono “uno sterminato giacimento a cielo aperto di storie da mille e una notte che farebbero la felicità di qualsiasi regista e sceneggiatore”. Facciamo tutti felici, allora. I pentiti parlano e straparlano, come a loro piace. La parte delle loro deposizioni che trova qualche riscontro, quella se la tiene il magistrato; il resto lo si deposita alla Siae. E nello spirito delle misure alternative alla detenzione, ciascun pentito può scegliere di scontare parte della pena come consulente di uno sceneggiatore italiano in crisi di idee. Magari non solo i pentiti. Che si fa, lasciamo morire in carcere un boss ottuagenario, malato e rincoglionito? Io lo userei piuttosto per metter su una grande, labirintica fiction epico-visionaria sull’abbraccio tra lo Stato e l’Antistato. Da un’idea di Totò Riina. Anzi, da un papello. Come dite? Esiste già?
Il Foglio, 17 giugno 2017
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