Condannati alla commedia
Non so se sia questione di dialettica storica o di vasi comunicanti, fatto sta che quel che esce dalla porta del cinema rientra dalla finestra della politica. Quando disimparammo l’arte della commedia, i suoi divi e caratteristi, lasciati a zonzo, presero a invadere la vita pubblica; ma a sbucare dallo schermo furono gigantografie così iperboliche che era impossibile farne una caricatura di secondo grado – pesante ipoteca sulle commedie a venire. L’ingresso negli anni Novanta è lo spartiacque. Muore il viveur Tognazzi, cedendo la scena a Berlusconi; lo segue nel 1994 Alberto Lionello, magnifico interprete di personaggi petulanti e un po’ untuosi, e libera un posto per Emilio Fede. L’intera carriera di Di Pietro cos’è, se non un collage di sceneggiature di Rodolfo Sonego, il cervello di Alberto Sordi? Poi la faccenda è scappata di mano. Un comico annoiato ha fondato un movimento più comico di lui, ed è ricominciato il travaso: fuori il principe della millanteria Manuel Fantoni, dentro Dibba con i suoi diari; fuori Guglielmo il Dentone, dentro Luigi Di Maio, che forse si allena a recitare scioglilingua allo specchio e a breve finirà per ballare con le Kessler.
Questo pensavo leggendo, nel nuovo libro di Luigi Manconi scritto con Federica Resta, Non sono razzista ma… (Feltrinelli), il capitolo sul “razzismo della bonomia” di Roberto Calderoli e sull’episodio dell’“orango” dato a Cécile Kyenge. È un’analisi parola per parola dell’autodifesa di Calderoli – “a suo modo, un piccolo capolavoro” – nella discussione sull’autorizzazione a procedere. Un discorso candido e piagnucoloso, sincero nella sua teatrale insincerità, quasi un appello all’incapacità d’intendere e di volere. I mazzi di fiori mandati alla Kyenge, l’ansia di ricondurre l’insulto a una “burlonata”, il racconto dei riti riparatori in Congo – tutto si chiarisce sotto la lente della commedia, e Manconi evoca opportunamente Sordi, Zalone e perfino i mondo movies di Jacopetti.
Nelle stesse pagine si può leggere il racconto di un dialogo cameratesco nelle stanze del Senato tra il vicepresidente e Paola Taverna: “Allora Robbè? Che se fa?”. Pare la scena di quel vecchio film in cui Sordi riconosce, dalla parlata, “‘a fija de Zaira ‘a Stracciarola” che ora fa la commessa in una boutique di lusso. Per gli autori questa simpatia è un “omaggio del sovversivismo nichilista e rauco del folklore grillino nei confronti del primitivismo naturalistico e corporale della ruralità leghista”, ma temo che la consonanza sia più profonda. Del resto, il richiamo al primitivismo è una costante nelle fenomenologie satiriche di quello che, di volta in volta, viene scelto come emblema dell’italiano medio – da Bongiorno giù fino a Grillo. A sconcertare gli etnologi è il misterioso sentimento d’innocenza, la persuasione di poter peccare in pensieri, parole, opere e omissioni senza esserne intaccati: siamo un paese di alumbrados burloni, e la nostra grazia santificante è il privilegio di non esser mai presi sul serio. Ma ora che questo gioco a nascondino – vestire secondo le occasioni la giubba del comico o del politico, per rendersi perennemente irresponsabili – è diventata arte di governo, c’è poco da ridere. Ci sarà ancora un regista di commedie, là fuori, capace di risucchiare gli ultracorpi nello schermo?
Il Foglio, 23 settembre 2017
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