Sul copyright del Sommo Necrologio: Dio è morto
Qualche tempo fa Il Foglio ha ospitato una dottissima querelle – che è durata lo spazio d’un mattino – sul “copyright della dipartita dell’Essere Supremo”. Dio è morto, su questo siamo tutti d’accordo. Ma chi ne ha stilato per primo il necrologio? Friedrich Nietzsche? Francesco Guccini? Woody Allen? (Nella scena finale della commedia Dio – nel volume Citarsi addosso – il deus ex machina cala sulla scena e rimane strangolato dal filo del suo meccanismo… segue un memorabile scambio di battute. Diàbete: “Dio è morto”. Dottore: “Aveva la mutua?”).
Nietzsche, nel suo stile istrionesco e quasi scandalistico degno di uno Hearst o di un Lord Northcliffe, annunciò su nove colonne all’Occidente sbigottito l’avvenuto decesso dell’Altissimo. E tanto per rendere più pepato lo scoop, aggiunse anche il referto del medico legale: omicidio (o deicidio, per esattezza). Ma prima che giungesse sulle labbra del folle della Gaia Scienza, il Sommo Necrologio era stato pronunciato molte volte, nel corso dei secoli, in un sommesso e ininterrotto passaparola. Henri de Lubac, in un libro meraviglioso (quasi tutti i libri di De Lubac lo sono) intitolato Il dramma dell’umanesimo ateo, ha provato a ripercorrerne le tappe: “Questa espressione, ‘morte di Dio’, apparteneva alla teologia più tradizionale, dove essa designava il dramma del Calvario. Nietzsche aveva certamente sentito cantare più di una volta, o cantato egli stesso, il corale di Lutero: ‘Dio, Dio stesso è morto’. E neppure ignorava l’uso che ne aveva fatto Hegel”.
…fermi tutti! Una questione di puntini sulle “i”. A proposito del corale di Lutero, leggiamo cosa scrive il teologo ortodosso Christos Yannaràs in un libro dal titolo molto friendly e bonaccione, Heidegger e Dionigi Areopagita. Assenza e ignoranza di Dio: “O grosse Not! Gotts Sohn liegt tot (Oh, la grande sventura! Il figlio di Dio giace morto!). Autore dell’inno in questione viene considerato J. Rist (1607-1667): sbaglia quindi Henri de Lubac ad attribuirlo allo stesso Lutero”. Chiusa la parente un po’ pedante.
Eravamo rimasti a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che a sua volta si richiamava a un’analoga espressione di Blaise Pascal. Arthur Schopenauer aveva parlato di un “Dio dei Giudei” ridotto ormai “allo stato cadaverico”; Richard Wagner aveva narrato in musica la morte di una razza divina; e persino quell’Heinrich Heine così ammirato da Nietzsche aveva stilato in qualche sua pagina il Sommo Necrologio.
E prima ancora? L’espressione “morte di Dio” compare, seppure in diversa accezione, in alcuni grandi mistici dell’epoca moderna, come Jakob Böhme e Angelus Silesius – e prima di loro nel medievale Meister Eckhart. Se volessimo risalire ancor più indietro in questa luttuosa genealogia potremmo giungere al grido terrifico che sigilla l’epoca pagana, “Il grande Pan è morto!”, o alle tante cicliche morti rituali degli dèi della vegetazione, descritte in quel tomo del Ramo d’oro di James Frazer che tanto ispirò Thomas Stearns Eliot per la Terra desolata.
Ma saremmo fuori strada. Se posso dire la mia, il copyright della “morte di Dio” in senso moderno spetta a un testo cabalistico dell’inizio del tredicesimo secolo, attribuito (erroneamente, a quanto pare) all’insegnante di Mishnah Yeudah ben Bathyra. Si potrebbero – e dovrebbero – spendere fiumi d’inchiostro per commentarlo; ragion per cui mi limito a presentarvelo. Lo riporta Gershom Scholem nel libro fondamentale La kabbalah e il suo simbolismo. Il testo in questione narra la creazione magica di un Golem, di un uomo artificiale dalle membra d’argilla. Un antenato dei robot da cucina, solo un po’ più goffo e ingombrante.
Il profeta Geremia e suo figlio Sira, sulla base di una lettura ispirata dello Yetsirah, il Libro della Formazione (leggi: libretto delle istruzioni), crearono un uomo che recava sulla fronte la scritta: JHWH Elohim ‘Emeth (Dio è Verità)… il bellimbusto d’argilla si animò, e i due avevano buone ragioni per essere euforici. Ve lo immaginate? Un libretto di istruzioni che serve a qualcosa! Che funziona! Guai a cantar subito vittoria, però. “Nella mano di quell’uomo appena creato c’era un coltello, con cui cancellava la aleph di ‘Emeth; restò allora meth. Allora Geremia si strappò gli abiti”.
Infatti sulla fronte del Golem, senza quell’aleph, campeggiava ormai la terribile sentenza: Dio è morto.
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