Guido Vitiello

Leggere (o non leggere) Lolita a Gerusalemme

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Una postilla a ruota libera su Lolita. Ne La banalità del male, resoconto del processo al supremo burocrate della Soluzione finale, l’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme nel 1961, l’inviata speciale del New Yorker Hannah Arendt non si lascia sfuggire un dettaglio curioso, cui dedica un’ampia digressione: “(…) a Gerusalemme il giovane poliziotto incaricato di salvaguardare il suo benessere mentale e psicologico gli dette da leggere Lolita, come svago; dopo due giorni Eichmann gli restituì il libro dicendo con aria indignata: ‘Ma è un libro proprio sgradevole!'”.

Non sapremo mai quante e quali pagine lesse Eichmann, né il punto esatto in cui il suo senso del pudore ebbe un soprassalto tale da spingerlo a chiudere il romanzo di Vladimir Nabokov. Certo è che l’episodio, nella sua banalità, ha accenti da commedia dell’assurdo. C’è qualcosa di perversamente comico nella coscienza di un uomo che nella vita pubblica è in grado di pianificare con scrupolo ed efficienza la deportazione di milioni di ebrei verso i campi di sterminio e poi, nel privato, inorridisce davanti a un romanzo un po’ scabroso e lascivo.

Ma forse non c’è da stupirsi troppo. Se Lolita è la storia di un posseduto dalle Ninfe e della sua mente unificata da un’ossessione esclusiva e vorace, non poteva che suscitare estraneità mista a sdegno (e forse un senso di colpa barlumeggiante, quasi inavvertito) in una delle menti più scisse di cui si abbia memoria; la mente di un uomo per cui ogni azione era scomponibile in fasi, sottofasi e operazioni parziali, senza cura alcuna del suo significato e del suo scopo complessivo; un uomo in cui la forma mentis burocratica era a tal punto ipertrofica da plasmare persino la sua idea di Dio, visto come il superiore gerarchico di una metafisica catena di comando.

Eichmann non è un caso isolato; la stessa stortura intellettuale e morale, la stessa suddivisione della coscienza in blocchi e comparti impermeabili era propria di gran parte degli uomini dell’apparato nazionalsocialista. Ma che dire dei tedeschi, i tedeschi comuni? Tutti dei “piccoli schizoidi” sullo stampo di Eichmann, ottusamente incolpevoli pur nella loro colpa abissale? Oppure “volenterosi carnefici”, come li vuole lo storico Daniel Goldhagen? O ancora “brava gente”, come li vuole al contrario il regista Edgar Reitz, autore di Heimat (1984)? O tutte queste cose insieme?

Non saprei. Ma c’è almeno un episodio in cui i tedeschi comuni si mostrarono assai affini al loro famigerato connazionale, il supremo burocrate della Shoah; forse persino più pruriginosi. Dieci anni prima che cominciasse il processo ad Adolf Eichmann e che questi inorridisse davanti a Lolita, in Germania il comune senso del pudore fu scosso da un film-scandalo: Die Sünderin (“La peccatrice”, 1951) di Willi Forst.

Verso la fine del film, la splendida protagonista Hildegard Knef compare nuda per qualche secondo, mentre posa in giardino per il suo amante-pittore. E’ il primo nudo della storia del cinema tedesco, appena un po’ più audace di quei diciotto fotogrammi a seno scoperto di Clara Calamai nella Cena delle beffe di Alessandro Blasetti che avevano turbato dieci anni prima il pubblico italiano. Il film di Willi Forst, credete a me che l’ho visto, non entrerà mai nella storia della settima arte; in quella del costume, però, c’è già entrato con pieno diritto. All’epoca della sua diffusione, infatti, una vasta e inferocita moral majority, capeggiata dalla Chiesa Cattolica tedesca, si scagliò contro il film, che aveva oltretutto la colpa di affrontare temi tabù come la prostituzione, l’eutanasia e il suicidio. Quella stessa moral majority, dei crimini nazisti non parlava; preferiva eludere, divagare, glissare, lasciarsi alle spalle i demoni del passato per dedicarsi al futuro e alla ricostruzione. Era ostinatamente sorda agli appelli di Thomas Mann o di Karl Jaspers sulla necessità di pagare fino all’ultimo centesimo il salario della colpa.

Anche qui c’è qualcosa di profondamente schizoide, e a suo modo di comico. In un’intervista concessa a Peter Hossli nel 1995 (la si può leggere integralmente qui), Hildegard Knef – che oltretutto era stata protagonista del film più coraggioso e tempestivo sulle colpe del nazismo, Die Mörder sind unter uns (“Gli assassini sono tra noi”, 1946) di Wolfgang Staudte, definì il suo paese schwachsinnig prüde, vale a dire “puritano a livelli demenziali”. La bella attrice e cantante scomparsa tre anni fa proseguiva così: “Voglio dire, un paese che ha avuto Auschwitz e ha combinato cose così orribili e poi, pochi anni dopo, ha reagito in quel modo perché mi si vedeva per un paio di secondi nuda sullo schermo… è del tutto assurdo”.

Assurdo, e sinistramente familiare. Come tutto il “caso Eichmann”.
Che forse (postilla alla postilla) non riguarda solo i tedeschi.

Tra le pagine del suo eccelso reportage, Hannah Arendt insinuava più volte l’idea che il delirio di Eichmann coincidesse con il delirio della ragione tecnico-burocratica in sé, che dunque ci riguarda da vicino. Tre anni più tardi il suo ex marito, il filosofo Günther Anders fece di questa tesi il centro di un pamphlet a metà tra riflessione morale e denuncia politica: Noi figli di Eichmann. Anders descrive l’opacità impenetrabile del mondo moderno, un mostruoso Leviatano burocratico che ci rende ciechi alle conseguenze ultime delle nostre azioni:

Non appena veniamo assunti per compiere una delle innumerevoli singole operazioni che costituiscono il processo di produzione, non solo perdiamo subito l’interesse per l’intero meccanismo in quanto tale e per i suoi effetti finali, ma veniamo anche e soprattutto derubati della facoltà di farcene un’idea.

Letteralmente, presi nel gigantesco apparato che ci sovrasta, non sappiamo quello che facciamo; o meglio, ne sappiamo troppo poco, una frazione insignificante. L’azione morale, già costitutivamente così tragica e disarmata, si svuota del tutto. Quando la sorgente viva dell’intenzione come forza unitaria si disperde in mille rivoli di operazioni parziali prive di significato e scaturisce in innumerevoli cascatelle di conseguenze inintenzionali, si può ben dire dell’azione morale quel che i demoni di Gerasa dicevano di sé stessi: “Il mio nome è Legione”.

Sulla croce, Cristo aveva detto: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Ma oggi, scrive Anders, proprio l’inconsapevolezza è diventata la colpa suprema, la mancanza imperdonabile: se è vero che la complessità e la trama indecifrabile di interdipendenze dell’ordine tecnico-burocratico ci hanno espropriato della nostra natura di esseri morali, il nostro compito più urgente – prima ancora di assumere l’una o l’altra scelta, di dare all’azione l’uno o l’altro contenuto – è quello di tornare in sella e riprendere in mano le redini.

Fino a quel giorno, a sentire Anders, saremo tutti figli di Eichmann.

(Spero che la cosa non vi offenda troppo, e che non deciderete di passare alle vie legali contro il guviblog. Anche perché, alla sbarra, avrò pronta una formula infallibile: “Stavo solo eseguendo degli ordini”. Ma se i carcerieri mi offriranno Lolita, siate certi che non lo rifiuterò).

Written by am

giugno 17, 2005 a 5:02 PM

Pubblicato su Trattati bonsai

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