Capolavoro in forma di rovina
Difficilmente i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti accolgono con favore i film che cercano di effigiare nella Biblia Pauperum del cinema la loro esperienza. Elie Wiesel detestava la serie televisiva della Nbc Holocaust, Bruno Bettelheim accusava Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller di trasformare l’Olocausto in farsa, lo scrittore ungherese Imre Kertész trovava falso il melodramma Schindler’s List – ma apprezzava La vita è bella, che con le armi del comico riusciva a comunicare un barlume dell’assurdità e del grottesco dei Lager (per inciso, chissà come sarà Sorstalanság, “Senza destino”, il film che egli stesso ha sceneggiato a partire dal suo capolavoro, e che uscirà a fine gennaio nelle nostre sale).
La stroncatura più celebre, almeno dalle nostre parti, rimane quella di Primo Levi al Portiere di notte di Liliana Cavani, tanto più inappellabile perché espressa con il suo consueto garbo: un film “bello e disonesto”. Dare alla relazione carnefice-vittima una coloritura erotica, farne un oscuro nesso sadomasochistico in cui le parti sono – se non commutabili – complementari, era ai suoi occhi la disonestà suprema.
Qualche giorno fa ho letto un libro di rara bruttezza: Acide sulfurique di Amélie Nothomb, romanzo breve su un reality show che si chiama “Concentration” – un ibrido tra i Lager nazisti e il Panopticon di Bentham. È un libro abborracciato, mal scritto, e a un certo punto compare anche un tal Pietro Livi che dovrebbe essere una specie di “omaggio” a Primo Levi. Al centro del romanzo c’è la relazione tra due donne, la kapò Zdena e la prigioniera Pannonique, la prima attratta sessualmente dalla seconda e in ultimo convertita dalla sua bellezza e umanità, in un finale più disneyano che dostoevskiano. La Bella e la Bestia, insomma.
Forse l’antidoto migliore a questa paccottiglia è il capolavoro postumo del regista polacco Andrzej Munk, Pasazerka (“La passeggera”, 1963). Munk morì in un incidente automobilistico durante le riprese, e la sua opera fu “restaurata” da un collaboratore, che non girò nulla di nuovo ma si servì di foto di scena e di una voce fuori campo per colmare i vuoti. Questo conferisce al film un’aura malinconica di capolavoro “al condizionale”, di grandiosa rovina, come Bezhin Lug di S.M. Ejzenstejn.
La passeggera è la storia di una ex kapò che, su una nave, crede di riconoscere un’ebrea che era stata sua vittima e per la quale aveva coltivato una profonda attrazione (non ricambiata). Confida allora il suo segreto al marito, con il quale ripercorre il suo passato. A differenza del Portiere di notte o di Acide sulfurique, La passeggera non pesca nel torbido, ma in ogni sua immagine è di una limpidità feroce e disarmante. È uno dei film più belli mai girati sull’Olocausto, e non solo. Non è facilissimo da reperire, ma per quanto possiate faticare, siate certi che ne sarà valsa la pena.
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