Una stagione all’inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la questione della colpa nel cinema tedesco
Dopo il crollo del Terzo Reich e la rivelazione coram globo dei suoi crimini, ha scritto Saul Friedländer, i tedeschi «sono stati intrappolati tra l’impossibilità di ricordare e l’impossibilità di dimenticare». Questa condizione paradossale si è riflessa fatalmente sullo schermo cinematografico, uno dei più potenti veicoli della formazione dell’identità nazionale e della memoria collettiva nei tempi in cui viviamo.
Sono ormai centinaia, dalla fine della guerra a oggi, i film tedeschi che hanno affrontato (o eluso) il passato nazista e la sua eredità morale. In queste pagine, tuttavia, si è scelto di parlare di un solo film, che Susan Sontag ha definito «il film più straordinario che io abbia mai visto, e una delle grandi opere d’arte del ventesimo secolo»: è Hitler, un film dalla Germania di Hans-Jürgen Syberberg, tetralogia wagneriano-brechtiana di durata impossibile (oltre sette ore) e di genere inclassificabile. È il film che meglio di ogni altro consente di riflettere sulla colpa tedesca, giacché la sua ambizione titanica – e inevitabilmente votata allo scacco – è proprio la liberazione dei tedeschi dal peso del loro passato traumatico. Ma il film di Syberberg offre anche un’occasione impareggiabile per rileggere l’intera storia del cinema tedesco, ripercorrendo a ritroso la traiettoria fatale delineata da Siegfried Kracauer: da Caligari a Hitler, dalle figure sinistre e perturbanti del cinema espressionista al delirio totalitario del “dodicennio nero”.
Una stagione all’inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la questione della colpa nel cinema tedesco, Ipermedium Libri, 2007, 180 pagine
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