Guido Vitiello

Río Quibú: la Cuba cannibale ha la Castro-enterite

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Amare, ironiche, perfino umoristiche – se ci armiamo del necessario “sentimento del contrario” – sono le vicissitudini della figura del caudillo, il governante populista, nella letteratura latinoamericana.

Mario Benedetti, il grande scrittore uruguaiano morto appena qualche mese fa, dedicò il saggio El recurso del supremo patriarca – curioso titolo “patchwork” – a tre romanzi di metà anni Settanta: Il ricorso del metodo del cubano Alejo Carpentier; Io il supremo del paraguaiano Augusto Rua Bastos; L’autunno del patriarca del colombiano Gabriel García Márquez. Tutti e tre i libri ruotavano attorno al massiccio imponente e tenebroso del caudillo archetipico, delineandone i contorni quel poco che bastava perché il lettore avvertito potesse riconoscervi, a piacimento, l’uno o l’altro tiranno locale.

Ma l’umorismo vuole che ad accomunare i tre autori, come pure il loro illustre recensore, fosse anche qualcosa di meno nobile: tutti infatti erano pronti a fare un’eccezione per difendere a spada tratta la dittatura di un caudillo caraibico, tale Fidel Castro. L’unico superstite, García Márquez, seguita a farlo ancor oggi: e proprio il mese scorso glielo ha rinfacciato, dalle pagine del prestigioso Letras Libres, il messicano Enrique Krauze.

Ronaldo Menéndez, esule cubano a Madrid di neppure quarant’anni, non è certo Carpentier o García Márquez, ma quanto meno il suo Río Quibú non soffre di questa maligna o astuta schizofrenia. Su tutto il romanzo – da poco pubblicato in Italia da Fazi (160 pagine, 16,50 euro) – aleggia lo spettro di un non meglio precisato Generale. E anche se Fidel Castro, a differenza del suo pupillo Hugo Chávez, non proviene dai ranghi delle Forze armate, sappiamo benissimo che è lui l’innominato di cui si parla: “Questa è un’isola strangolata e con la lingua di fuori, qui non c’è futuro nemmeno quando muore il Generale”.

E il Generale muore, in Río Quibú, fiaccato “da una controrivoluzionaria malattia”. L’eclissi di questa figura gigantesca, svettante, che pareva eterna come gli elementi della natura, si consuma in uno stralunato Cinque Maggio che lascia sull’isola una popolazione di orfani attoniti e muti, e che ispira una pagina tra le più belle del libro: “Non è possibile calcolare la profondità del silenzio prodotto dalla notizia, come se la terra si fosse svuotata di tutta l’aria. Nessun suono; né quello dell’asma, né del battito di cuori; come se si arrestasse il suono stesso della coscienza”.

Río Quibú è un noir, il genere più frequentato (diremmo: affollato) degli ultimi quindici anni, e del noir condivide stili e vezzi, come pure qualche cliché e qualche furberia da scuola di creative writing. Al centro della vicenda c’è l’indagine di un adolescente, Junior, sulla morte della madre Julia, uccisa dopo esser stata adescata da un misterioso mulatto che le si è accostato su una Mercedes-Benz dai vetri oscurati sostenendo di reclamarla a nome del Generale. Río Quibú però deve qualcosa anche al realismo sucio, il «realismo sporco» di quegli scrittori che hanno ripudiato il mondo magico e agricolo di García Márquez per raccontare un’America Latina urbana, contaminata e spesso sordida. Come le acque del fiumiciattolo che dà il titolo al libro, “una secrezione che esce silenziosamente da enormi tubature sotterranee a mezzo miglio dalla spiaggia”.

Ma Río Quibú è ben più dell’incontro tra noir, realismo sucio e qualche tocco di truculenza splatter. L’ingrediente decisivo è una sorta di grottesco rabelaisiano, che consente di trasfigurare in favola – e quale atroce favola – le miserie del “periodo speciale” post-sovietico, in tempi in cui peraltro la realtà cubana sembra copiare dalle barzellette (è recente la notizia secondo cui la stampa di partito è usata comunemente come carta igienica). Ogni cosa – la penuria permanente, le fughe, i balseros, la delazione generalizzata, la partecipazione politica coatta come pure l’entusiasmo coatto – è trasposta nel registro di un umorismo macabro e primario, che affonda nella materia più bassa, sangue, cibo, merda, e nelle relazioni più oscene: incesto, stupro, cannibalismo. Specie quest’ultimo, che ha qualcosa a che fare con il Menù Insulare di cui si favoleggia nel libro.

Questa chiave rabelaisiana, perlomeno da George Tabori in poi, è indispensabile per dar forma letteraria alla immane promiscuità dei regimi totalitari, di cui la Cuba castrista è uno degli ultimi sopravviventi esemplari: quella promiscuità che si ha quando la grande Storia – il Partito, la Rivoluzione, l’Uomo nuovo – è calcata a forza sulle vite dei singoli, senza lasciar loro via di scampo. Proprio a questa promiscuità, o se piace a questa forma politica dello stupro, Julia cerca di sfuggire: “Dica al Generale che tante grazie, ma io non vado a letto con la storia di questo paese”.

Certi paradossi, però, sono duri a morire. Accade così che l’edizione italiana sia presentata da Luis Sepúlveda, lo scrittore che fuggì dalla padella di Pinochet per abbrustolirsi di buona lena nella brace ideologica di Castro; che non si vergogna di chiamare gusanos, “vermi”, gli esuli della Fondazione cubano-americana di Miami, proprio come li chiama il dittatore; e che, guarda caso, sui sottintesi politici di Río Quibú fa del suo meglio per fare il finto tonto.

Articolo uscito sul Riformista il 19 novembre

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novembre 19, 2009 a 7:44 PM

Pubblicato su Il Riformista

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