Non erano solo canzonette. Edoardo Bennato Revisited
Il guaio di essere à la page è che, quando la storia volta pagina, si finisce schiacciati nei suoi faldoni come fiori secchi. Chi accetta di sottomettersi ai tempi naviga certo con lo Zeitgeist in poppa, ma questo soffio poderoso lo conduce presto o tardi a schiantarsi, a capriccio, contro il primo faraglione. Chi al contrario ricusa il tribunale della storia, acquista il privilegio regale di giudicarla: è il tempo stesso, allora, che s’incarica di sciogliergli i legacci. È il caso di quelle nature limpide, talora persino naïf, che hanno la benemerita sfacciataggine di chiamare le cose con il loro nome a dispetto dei contesti e delle convenienze, delle filosofie imperanti e delle menzogne di corso corrente. Loro capostirpe è il Candido voltaireano, e grazie al cielo il secolo terribile che abbiamo alle spalle ha visto all’opera un buon numero di suoi rampolli; il più noto dei quali è George Orwell, che seppe vedere ragioni e torti nella loro nudità, con l’occhio infallibile del bambino di Andersen, incurante degli abiti ideologici di cui pretendevano di ammantarsi.
C’è chi ha passato al setaccio la storia culturale del nostro paese in cerca di esemplari di questa varietà rara tra scrittori e polemisti; quasi nessuno, però, si è occupato di una specie anomala di maîtres-à-penser: i cantautori. Una famiglia che ha riprodotto, in piccolo, le divisioni e gli schieramenti di campo dei piani nobili della cultura, quando non le fazioni dell’Italia partitocratica. Ebbene, anche il mondo della canzone ha avuto il suo Candido, che risponde al nome di Edoardo Bennato; cui spetta, diremmo volentieri con le parole del suo collega Guccini, “un lauro da genio minore”. Il suo disco più fortunato, Sono solo canzonette, celebra in questi giorni il suo trentennale, ma dal marzo del 1980 a oggi non ne è caduto uno iota, c’è ben poco che la storia successiva ne abbia appannato.
L’idea al centro di questo smagliante concept-album era una rilettura allegorica della fiaba di Peter Pan come chiave per parlare dell’Italia stritolata tra i due partiti-colosso del compromesso storico da una parte e la pirateria della lotta armata dall’altra. Bennato vi allestiva, traccia dopo traccia, una deliziosa e ironica galleria di ritratti: il Capitan Uncino “professore della rivoluzione”, faro illuminante della pirateria, un benestante che impiega sul fronte i soldi di papà e insegna alla sua ciurma “a far la faccia dura/per fare più paura”, un incrocio tra Giangiacomo Feltrinelli e Toni Negri. Il pirata avvinazzato Spugna, recluta perfetta del brigatismo, un fuoricorso inconcludente parcheggiato in qualche facoltà – di sociologia, supponiamo – che non sa neppure più qual è il suo nome all’anagrafe ma è diventato qualcuno in pirateria (“e non m’importa dov’è il potere/finché continua a darmi da bere”, canta su un motivetto anni Venti). Il duetto da operetta dei genitori benpensanti che si trasforma via via in un coro compatto di linciatori contro Peter Pan, immagine forse un po’ svenevole della libertà conseguita nell’arte e della leggerezza aerea che i risentiti e gli impotenti, non potendo acciuffarla dal fango in cui sono affondati, preferiscono abbattere. Ma la grande creatura allegorica che domina ogni cosa è il Rockoccodrillo, il ticchettante caimano del Tempo che ha inghiottito una sveglia, il diplomato maestro di ballo che impone a tutti di seguire il ritmo della sua Totentanz e tutti finisce per divorare, maggioranze silenziose e piraterie chiassose.
Inutile dire che piovvero su Sono solo canzonette le accuse di qualunquismo: erano d’altronde piovute già su Storia di un impiegato di De André, su Nuntereggaepiù di Rino Gaetano, insomma sugli altri due spiriti candidi della canzone italiana. A ben vedere, il rapporto di Edoardo Bennato con la schiera dei colleghi cantautori più tradizionalmente engagé ricordava un poco quello del Pci con il Partito Radicale (per il quale il musicista di Bagnoli non ha mai nascosto le sue simpatie). Lo si è accusato di volta in volta di essere un ribelle imbelle, anarcoide, istrionesco, individualista, irresponsabile, incline alla buffoneria. O, con le parole del suo Capitan Uncino, “un qualunquista, un esibizionista, di tutti i miei nemici il più pericoloso, il primo della lista”. Nel migliore dei casi, un fenomeno da rubricare nella tradizione delle jacqueries, delle rivolte plebee, nella variante locale del Masaniello. Nulla di più falso. A riascoltarle oggi, le canzoni di Bennato appaiono limpidamente per quel che sono: un distillato di pensiero libertario, un po’ anarchico ma sorprendentemente saggio – e non per caso il cantautore di Bagnoli trovò apprezzamento nella nobile famiglia dei meridionalisti liberali, della Napoli illuminata, vantando fan d’eccellenza come Raffaele La Capria.
Prendiamo, come esempio, la strepitosa satira antigiacobina di Arrivano i buoni, che risale al 1974. A un ascolto distratto potrebbe persino evocare i lealisti borbonici che al tempo della rivoluzione di Napoli giuravano morte ai giacobini “a lu suono di li viulini”. Ma i buoni di Bennato sono quelli che “hanno le idee chiare e hanno già fatto un elenco di tutti i cattivi da eliminar”, e per creare la loro Città senza servi né padroni “hanno fatto una guerra contro i cattivi” – la guerra rivoluzionaria – “però hanno assicurato che è l’ultima guerra che si farà”. La canzone si chiudeva su una irriverente Faccetta nera storpiata al kazoo, appaiando così la rivoluzione e la “guerra igiene del mondo”, dunque le due grandi varianti dell’illusione utopista di sradicare il male e instaurare la tirannia della virtù. Non è sanfedismo: è François Furet con chitarra dodici corde, tamburello e trent’anni di anticipo.
Edoardo Bennato è forse il solo che non abbia nulla da farsi perdonare, se non lo smalto perduto dopo quella prima stagione sfolgorante. Sognatevi di trovare nelle sue canzoni le morettiane “cose orrende, violentissime” su cui esercitare il piagnisteo generazionale. Nessun inno al macchinista attentatore suicida che si scaglia contro il treno dei signori; nessun peana hegeliano-populista alla storia che “entra dentro le stanze e le brucia, dà torto e dà ragione”, tanto per citare due esempi, pur nobili, della nostra canzone. Al contrario, le sue parole risuonano tuttora potentemente con l’attualità: sono le parole di chi ha visto giusto per il semplice fatto di aver visto, di aver fatto uso della elementare facoltà di aprire gli occhi. In prigione in prigione – dall’altro e forse più felice concept-album fiabesco, Burattino senza fili (1977), ispirato a Pinocchio – ripercorre la parabola autofaga del delirio giustizialista, degli epuratori che finiscono per epurarsi l’un l’altro; Uffà Uffà, lo sfogo di un uomo esasperato che piuttosto che arruolarsi nelle nuove crociate contro i Mori preferisce andare a piedi e non subire il ricatto petrolifero, è cronaca recente o futura; la deliziosa Dotti, medici e sapienti qualcuno avrebbe dovuto intonarla al capezzale di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro; Detto tra noi, il ritratto del brigante affabulatore, sappiamo tutti a chi e a quanti si attaglia.
Ma forse il più profondo segreto di quel trionfo di Bennato di trent’anni fa stava nella leggerezza, nella sprezzatura sorniona di quel Sono solo canzonette – eco dell’It’s Only Rock’n’Roll dei Rolling Stones – con cui rimbeccava le chiamate all’impegno degli “impresari di partito” (ché, in fin dei conti, l’engagé è chi riceve un ingaggio). Un po’ come il vezzoso understatement di Alberto Arbasino, che paragonava i letterati ai gelatai. La satira sull’intellettuale-vate, d’altra parte, Bennato l’aveva replicata in quella sulla rockstar-vate, Cantautore, di qualche anno prima. E questa nota di stile, d’ironia lieve che non si abbassa a macerarsi nel malanimo e nel sarcasmo, risuonò anche quando, come accadde a tanti artisti dell’epoca, Bennato subì a Salerno la contestazione degli autonomi. In circostanze affini, a Verona, il ruvido e schietto Guccini avanzò verso i mestatori trasformando il pugno chiuso nel dito medio alzato. Il più delicato De Gregori, processato al Palalido di Milano, si rifugiò sotto choc in camerino, e non si riprese per un pezzo. Edoardo Bennato pensò, semplicemente, che quei giovanotti fossero musicisti mancati, soccombenti, intossicati dal risentimento.
Articolo uscito sul Riformista Ombra di domenica 7 marzo 2010
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