Il gattopardo di Schrödinger. Alfonso Berardinelli e il romanzo
Dovete avere almeno ottant’anni, una veneranda canizie e magari un Nobel nel curriculum per potervi permettere, come José Saramago nel 2004, di intitolare un romanzo Saggio sulla lucidità senza che l’editore vi sguinzagli contro una muta di Dobermann inferociti. Le cose, infatti, girano per lo più nel verso opposto: voi vi presentate, che so, con sotto braccio il dattiloscritto di un diligente trattato di geologia, e l’editore fa i salti mortali pur di scrivere sulla quarta di copertina che è “un saggio che si legge come un romanzo”; se poi nel vostro trattato si fa menzione della morfologia dei fiordi, la fascetta editoriale aggiungerà “che si divora come un noir scandinavo”. Tutto deve prender forma e figura di romanzo: in hoc signo vinces. Si può dedurne che il romanzo scoppia di salute, che è anzi una minaccia per le altre specie viventi dell’ecosistema letterario. Ma questo smentirebbe il tristo annuncio che sentiamo risuonare, ciclicamente, da tre generazioni: il romanzo è morto (come d’altro canto Dio, l’autore, la modernità e le mezze stagioni). A chi prestare fede? Per parte mia, mi piace pensare che il romanzo sia vivo e morto allo stesso tempo, come il gatto di Schrödinger, protagonista di un celebre paradosso della meccanica quantistica che ogni umanista travisa alla sua maniera, a seconda di quanto siano pallidi e lontani i suoi incontri con la scienza.
Alfonso Berardinelli (Non incoraggiate il romanzo, Marsilio) sembra invece aver acciuffato il dilemma per il lembo giusto. Non si tratta di stabilire se il gatto-romanzo di per sé sia vivo o morto, ma piuttosto di capire che cosa si agita sotto l’etichetta “romanzo”. La definizione è anzitutto merceologica, anche se riguarda una merce più feticcio di altre: “una categoria eterogenea di prodotti che occupano un certo spazio, portano quel certo nome e si presentano grosso modo come romanzi almeno nella prima e nell’ultima pagina”. Se ne può concludere che oggi “il romanzo è più un ‘genere editoriale’ che un genere letterario, è un oggetto dotato di un forte magnetismo perché si presenta come un parallelepipedo di pagine stampate che si suppongono unite da un filo mentale”.
D’altro canto, questo parallelepipedo è lo stampo entro cui meglio si accomoda e si coagula una materia prima aerea, imprendibile, spesso evocata come “narrazione”. Tutto è, o vuol essere, narrazione. Anche qui, sembrerebbe, c’è un necrologio da rettificare: nell’epoca che piange la fine dei grands récits, delle storie che davano senso a tutto, la forma-narrazione si è fatta regola di ogni discorso. Dal teatro civile alla cronaca fatta noir, da Signorini a Vendola, dal corporate storytelling al subcomandante Marcos – la marea delle narrazioni rischia, romanzando tutto, di annegare il romanzo. Che in Italia, mostra Berardinelli nella sua galleria di ritratti di romanzieri vecchi e nuovi (in buona parte usciti sul Foglio), è più indifeso che altrove: “molta bella prosa e pochi veri romanzi, alto artigianato stilistico ma scarsa inventività narrativa”. E così, proprio come siamo passati d’un balzo dalla civiltà contadina alla società dei consumi, quasi scansando la modernità industriale, “da noi si sono fusi il pre-romanzo e il post-romanzo: cioè una prosa preliminare alla narrazione vera e propria e una prosa che vuole (o crede) di superare la forma cosiddetta classica, realistica, tradizionale, ottocentesca e saldamente concatenata della narrazione romanzesca”. Per andar dove? Verso l’opera mondo alla Joyce (o alla Littell)? Proprio non pare. Verso l’epica popolare del feuilleton e il gioco ironico con gli stereotipi della narrativa di genere? Più plausibile (e più furbo). Verso il perenne cabaret dell’io narrante, con fuochi di Bengala esplosi a vuoto? Assai frequente. Molte vie e viuzze si lasciano intravedere nelle pagine di Berardinelli, ma danno tutte sulla piazza di sempre. Di abbandonare il parallelepipedo, per ora, non se ne parla. Più che un gatto di Schrödinger, il romanzo è un gattopardo.
Articolo uscito sul Foglio il 27 aprile 2011 con il titolo Non si sa dove andrà, ma di certo il romanzo non andrebbe incoraggiato.
Vero che in Italia il romanzo propriamente detto non è mai esistito (non a caso uno dei pochi italiani letto a tutt’oggi nel resto del mondo è l’austroungarico Svevo), ma attenzione a confondere “romanzo” e “narrazione”. Il Decameron, per dirne uno, per quanto stilisticamente curatissimo, ha una freschezza e una godibilità narrative tali che ancora oggi si legge con gran gusto (non diversamente da un Cervantes o da un Defoe). Le grane arrivano dopo…
davide
aprile 28, 2011 at 4:29 PM