Il dio assassino. Su una sequenza di “Tenebre”.
Gli amici della rivista online Quaderni d’altri tempi mi hanno chiesto di commentare una sequenza di un film che mi fosse, per una ragione o per l’altra, particolarmente cara. Ne ho scelta una da Tenebre (1982) di Dario Argento. Per parlare del cinema moderno si usa spesso la formula arcinota di Alexandre Astruc, la caméra-stylo, la macchina da presa usata come una penna. Si tende a dimenticare che lo stilo è anche un pugnale. In cinque deliranti minuti, probabilmente i migliori di tutto il suo cinema, Argento fa riaffiorare questa antica identificazione. O almeno è quel che provo a sostenere in queste note, forse altrettanto deliranti.
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Niente male, per un film che si chiama Tenebre: una donna tutta vestita di bianco, con una borsa bianca, entra in una casa bianca e si mette a conversare con un’altra donna, la sua amante, avvolta in un telo bianco. Si affaccia alla finestra, dalle tende bianche, e sembra avvertire una presenza minacciosa. Da qui parte un tour de force registico che non ha pari nel cinema di Dario Argento, un long take delirante, quasi un piano-sequenza, che sfugge a qualunque classificazione, realizzato con la leggendaria Louma (una gru snodata su cui è montata la macchina da presa, e che consente acrobazie e traiettorie impossibili). È una soggettiva dell’assassino? È un’oggettiva irreale, come quella che apre L’infernale Quinlan? (continua a leggere su Quaderni d’altri tempi)
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