Guido Vitiello

Birth of the cool. Appunti sulla nuova glaciazione

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Il settimanale cattolico Tempi mi ha chiesto, lo scorso luglio, di espandere una frase del mio articolo sul cool, Il dolce stil fico, fino a farne un articolo. La frase era questa: “E se avessero occhi per vedere, gli uomini di chiesa capirebbero che la minaccia non viene da una dottrina, il relativismo, ma da uno stile emotivo che prende a modello proprio i ‘tiepidi’ contro cui tuona l’Apocalisse. Non di secolarizzazione dovrebbero parlare, per queste decadi, ma di un principio di glaciazione”. Far lievitare una metafora buttata lì senza troppo pensare non sempre è facile, ad ogni modo questo è il meglio che sono riuscito a inventarmi.

***

All’abbacinante luce intellettuale del Paradiso e a quella più tenue del Purgatorio, lo abbiamo appreso sui banchi di scuola, i lettori romantici di Dante preferivano di gran lunga l’Inferno e le sue fiamme scompigliate, irrequiete come le passioni umane; ma fu proprio uno di loro, Francesco De Sanctis, a osservare che via via che ci s’inabissa nella Giudecca il fuoco si smorza e «l’uomo bestia diviene l’uomo ghiaccio, l’essere petrificato, il fossile»: il Lucifero dantesco, annunciato da ventate gelide, se ne sta per l’eternità conficcato nel ghiaccio fino al petto. All’altro capo di quella grande valle degli echi che è la letteratura, gli risponde qualche secolo più tardi il Bernanos di Monsieur Ouine, annunciando che l’enfer, c’est le froid: l’inferno è il gelo. Se è vero, come lamentano da cinquant’anni i cattolici meno accomodanti, che molti sacerdoti siano restii a predicare sull’Inferno per timore di veder fuggire i fedeli a gambe levate, c’è da scommettere che nella calura agostana l’immagine dantesca potrebbe trattenerli di buon grado in chiesa. Ma per carità, di dare imbeccate per le omelie non ci sogniamo neppure: sarebbe pretesa immodesta e quasi sgarbata, per questa incursione in partibus fidelium. Vogliamo però suggerire una metafora.

Quando parliamo del destino della religione nel mondo moderno ricorriamo di solito a un termine preso a prestito dal lessico dei canonisti, quello di secolarizzazione; più di rado usiamo la metafora astronomica dell’eclissi del sacro o quella weberiana, dal suono quasi fiabesco, del disincanto del mondo. Le metafore sono come lenti, consentono di vedere aspetti della realtà che l’occhio nudo non coglie; alcune deformano le cose osservate, altre ancora annebbiano la vista. Bisogna provarne molte, come dall’ottico, prima di pescarne una buona. E allora, proviamo: perché non gettare un ponte tra geologia e teologia e parlare, più che di un’eclissi o di un disincanto, di una grande glaciazione? Qualunque cosa sostengano i teorici del riscaldamento globale, è difficile negare che negli ultimi secoli lo spirito del mondo, perlomeno in Occidente, si sia sensibilmente raffreddato, salvo riscuotersi con vampate improvvise e non sempre benigne.

La prima glaciazione si registrò all’alba dell’era moderna. L’economista e storico delle idee Albert Hirschman la descrisse nel piccolo classico Le passioni e gli interessi, dedicato al capitalismo nascente e alle dottrine morali che ne agevolarono il trionfo. Apprendiamo dalle sue pagine che al mondo eroico e aristocratico delle passioni, avido di gloria e di grandezza, il capitalismo venne sostituendo il primato degli interessi, il doux commerce di cui parlava Montesquieu, capace di addomesticare certe inclinazioni incendiarie dell’animo umano. Gli interessi non sono arroventati come le passioni, ma neppure gelidi come l’astratta ragione: al fuocherello del proprio interesse ci si può riscaldare quanto basta, senza bruciare. Potrà sembrare meschino questo mondo di passioni tiepide e prudenti, ma è certo che la coltivazione degli interessi è stata una grande virtù civilizzatrice, e che il tramonto degli ideali guerrieri ha contribuito a instaurare, in Occidente, una regola di vita meno burrascosa. E il cristianesimo, che pure voleva tenere alla briglia le passioni, ma in tutt’altro modo che con una temperata avidità? Se è vero quanto annuncia l’Apocalisse, e cioè che i tiepidi saranno vomitati, è altrettanto vero quel che dice il profeta Isaia, e cioè che non si può vivere tra fiamme perenni. E così, a fatica e di contraggenio, l’antica fede è riuscita ad adattarsi alle condizioni climatiche introdotte da questa glaciazione protomoderna – e alcune specie dell’ecosistema cristiano, come i calvinisti, si sono acclimatate nel migliore dei modi.

L’idea di un mondo pacifico e industrioso retto dagli interessi capitolò nel Novecento, quando regimi dispotici e assassini inalberarono di nuovo il vessillo, posticcio ormai, degli ideali guerreschi, opponendo gli Helden, gli eroi, agli Händler, i mercanti. La guerra innalzò sciagurosamente la temperatura d’Europa, ma quella micidiale fornace annunciava, di lì a poco, una nuova glaciazione, nella quale siamo tuttora immersi. È una congettura, beninteso: la storia interiore delle civiltà non si misura sulle cronache, ha cadenze lente e solenni come il “tempo profondo” della geologia, e a differenza di Hirschman non abbiamo alle spalle una distesa di secoli su cui ragionare. Non possiamo affidarci che ad avvisaglie e segnali, registrando per esempio l’insolito vento freddo che spira ininterrottamente proprio dagli anni della Guerra fredda, e la cui origine è da situarsi nel Nuovo Continente. Per azione di questo vento, a congelare le passioni non è più il calcolo del borghese industrioso, eroe di un mondo di produttori; il modello che si afferma, e che dilaga dagli anni Sessanta in una società di consumatori, è quello della personalità cosiddetta cool – fredda, appunto. È la cifra antropologica della glaciazione incipiente – una sorta di narcisismo ironico, un atteggiamento di padronanza e disinvoltura che consente di neutralizzare, mettendole a distanza, le passioni che rischiano di sfuggire al controllo e farci avvampare. Un modello incarnato, con piccole varianti, da molti degli dèi e degli eroi sospinti in cielo dai fumi sacrificali dell’industria culturale: lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, da decenni. Sono forse i tizzoni semispenti delle vecchie fedi e ideologie a trattenere il trionfo pieno e incontrastato di questo stile glaciale in Europa – d’altro canto, non c’è niente di meno cool che votarsi anima e corpo a una causa o a una dottrina di salvezza, tutte cose che surriscaldano oltre i livelli di sicurezza e che minacciano di spodestare quella sovrana noncuranza.

Questo, per un verso, fa del cool una nuova virtù sociale come l’antica cura degli interessi, un antidoto scettico al fondamentalismo e ad altre inclinazioni distruttive; per l’altro ne fa un nemico insidiosissimo sulla via di qualunque religione, specie di quelle del Libro: l’individuo cool in preghiera, o anche solo in ginocchio, è una contraddizione in termini. Non sarà un caso se tutti i tentativi di rendere cool il cristianesimo sono così goffi, a partire dal primo e più noto, il musical Jesus Christ Superstar: ogni volta che si è cercato di rendere Gesù un tipo al passo con le mode giovanili si è offerto lo spettacolo di un triste e vano arrancare.

Ad accorgersi dello stridere tra i due mondi era stato per primo un cristiano anomalo e ben poco chiesastico, Pier Paolo Pasolini, nell’articolo del 1973 sui “Jesus Jeans” e sul manifesto pubblicitario dove un bel fondoschiena femminile intimava “non avrai altro jeans all’infuori di me”, slogan che suscitò le rimostranze dell’Osservatore Romano. Certo, Pasolini non parlava di cool ma dello «spirito totalmente pragmatico ed edonistico» della nuova borghesia consumistica; non parlava di seconda glaciazione, ma di seconda rivoluzione industriale, di mutazione antropologica o di scomparsa delle lucciole. Altre metafore, per una constatazione simile: «Anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori». Uno spirito che tutt’al più attinge alle antiche fedi come da un campionario di tessuti, per farne magari dei jeans, ma che prepara un mondo in cui la religione «sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile». O come il gigantesco fossile di un dinosauro estinto, in un museo del dopo glaciazione.

Articolo uscito su Tempi il 7 settembre 2011

Written by Guido

settembre 27, 2011 a 7:27 PM

3 Risposte

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  1. Bello, ma forse l’originale (l’articolo-padre, per così dire) era più ricco e stratificato. Una curiosità: mi pare che dall’analisi del cool emergano caratteristiche in larga parte coincidenti con quello che si intende di solito per “postmoderno”. Non ultimo questo utilizzo della religione (come di mille altre reliquie culturali) come repertorio da sfruttare banalizzando, distanziando e disinnescando. Se è così, c’è un modo per uscire dall’empasse, e dalla falsa dicotomia cool vs pasolinismo frainteso, quello che si ritrova – per intenderci – su Alias? Oppure il cool è, in fondo, Zeitgeist, e come tale ce lo dobbiamo tenere e apprezzarlo pure (come insinua viscidamente Baricco in quei suoi pipponi sui Barbari)?

    Myo Dyo

    settembre 29, 2011 at 9:54 am

  2. “Impasse”, chiaramente. Sorry.

    Myo Dyo

    settembre 29, 2011 at 9:55 am

    • Secondo me ce lo dobbiamo tenere, ahimè.
      Per il resto condivido il giudizio sull’articolo (l’altro), di cui questo è un mero spin-off!

      unpopperuno

      settembre 29, 2011 at 9:58 am


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