Guido Vitiello

Quell’Accademiaccia brutta. Di Matteo Marchesini

with one comment

Una discussione del Foglio su Gadda ha risvegliato i miei umori anti-Ingegnere. O meglio antiaccademici: perché da troppo tempo l’espressionismo estrinseco del Carlo Emilio fa venire l’acquolina in bocca al liceale goliardico e al glossatore compiaciuto che covano in molti professori. Secondo me aveva ragione Luigi Baldacci: Gadda è diviso in due, e deve alla parte ottocentesca del suo avo Dossi molto più di quanto si voglia ammettere. Il fatto è che in lui c’è una visibile sproporzione tra le doti del superbo stilista, e le doti (minori) dello scrittore tout court. Ad esempio, gli apologeti della frusta satirica gaddiana dimenticano che i suoi strali consistono spesso di trovate e di tipi già bell’e confezionati e addirittura fumettistici: sono il mero trampolino per i tour de force verbali. In Gadda la palude grottesca che deforma la realtà è la conseguenza di una coatta riduzione a “macelleria” dell’immagine propria e del mondo, ossia la conseguenza di una schizofrenia che produce insieme repressione e trasgressione: è una condanna esistenziale, ma non poggia su un profondo talento da satiro. E infatti, se appena abbandona la putredine, vengono in primo piano la liricheggiante prosa d’arte e la retorica dannunziana, che dai diari di guerra giovanili arrivano a insidiare perfino La cognizione del dolore.

Comunque, il dilagare senza freni d’inventarii viscerali, e l’incessante, ingegnoso quanto puerile sgambetto alla parola consueta (così Cases), rendono la scrittura di Gadda non una scrittura d’invenzione ma piuttosto una scrittura «caricata», una «retoricizzazione del reale» (Baldacci). Perciò si esprime in un’espressività parodica che «si rivolge sempre all’intelligente lettore con una strizzatina d’occhio». Questa espressività, prosegue il critico, è ottenuta attraverso una lingua ridotta a catalogo sincronico, congelato, di tutte le opzioni possibili: siamo cioè di nuovo a D’Annunzio, ma a un D’Annunzio post 1914 – cioè post-catastrofe. E potremmo aggiungere, con una battuta, che Gadda non è né Joyce né Céline appunto per ragioni molto simili a quelle per cui D’Annunzio non è né Mallarmé né Wilde.

Tutto questo spiega perché i pezzi più saporosi dell’ingegnere si trovino tra i «disegni milanesi» dell’Adalgisa: qui la coatta riduzione al grottesco è infatti del tutto omologa al mondo piccolo meneghino di filantropi e politecnici. Ma soprattutto importa il fatto che questo Milàn a cavallo tra Otto e Novecento si situi esattamente alla latitudine storica alla quale si è formato l’astorico congelamento linguistico, il mostruoso inventario positivistico-decadente che la strozzatura gaddiana del reale fa esplodere per reazione in ipertrofia stilistica. In questo senso, il rovescio negativo dell’Adalgisa è costituito dalla pseudosatira di Eros e Priapo, che sotto i fuochi d’artificio del paté espressivo denuncia invece la corrività dell’uomo d’ordine deluso e appunto del liceale goliardico (“l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio”).

Concedendoci un giochetto un po’ frivolo, potremmo immaginare che se Gadda avesse potuto assistere alla metamorfosi in premier d’uno di quei Berlusconi che allinea tra le tribù meneghine (coi Caviggioni, i Bernasconi, i Trabattoni…), probabilmente non avrebbe saputo dirci sul tema altro che le stesse ovvietà che ci ripetono tanti intellettuali di lui infinitamente meno dotati. Con l’altrettanto ovvia differenza, tuttavia, che il suo Berlusconi sarebbe uscito da una scientifica e fastosa raffinazione gergale delle analisi da gazzetta. Del resto, divertimento a parte, perché fare la storia con i se? Un esempio l’abbiamo: e sono i tanti nomignoli ingiuriosi, goliardici e innocui, con cui nel Pasticciaccio e in Eros e Priapo s’identifica il duce. Per dirla ancora con Baldacci: qui, come in molte zone dell’opera gaddiana, il borghese tradito e impotente «bestemmia come un turco»; ma non tocca i sublimi vertici di poesia carnevalesca che troppi interpreti esaltano soprattutto per esaltar le loro glosse, e per mostrare che hanno colto la strizzata d’occhio.

Matteo Marchesini

Articolo uscito (in versione più breve) sul Foglio il 5 novembre 2011

Written by Guido

novembre 6, 2011 a 8:15 PM

Una Risposta

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  1. Wow.

    Myo Dyo

    novembre 7, 2011 at 12:06 PM


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