Chiamale, se vuoi, rimozioni. Di Andrea Minuz
Quando, introducendo nel 1934 gli scritti di Mazzini, Adolfo Omodeo scriveva che «la storia umana è diretta da una provvidenza che supera gli accorgimenti politici e che drizza a ignote mete la nave dell’umanità», forse non immaginava che quella italiana lo sarebbe stata ancora di più. Vagando tra le sale della mostra degli archivi fotografici dell’Ansa – un racconto per immagini dal dopoguerra ad oggi – si ha come l’impressione di far parte di uno straordinario moto di perennità e trasformazione intrecciate tra loro da una provvidenza sanguinaria, più shakespeariana che cattolica. Non si sottovaluti il tempo verbale scelto per il titolo: Fotografandoci (L’Italia nelle foto dell’Ansa). E il gerundio, la sua processualità infinita che conosce due tempi, il passato e il presente, ci sembra in effetti il “modo” più italiano della lingua italiana. Il verbo della perennità e della trasformazione.
C’è la perennità degli scontri di piazza, ad esempio. Scorrono gli scatti, vediamo cambiare tutto: mode, facce, paesaggi, automobili; ma le immagini delle piazze degli anni Settanta sembrano estratte dalla cronaca di pochi giorni fa (e viceversa). Stesse barbe, stessi manganelli e, ahimè, stessi slogan (solo i pugni alzati, nel confronto, subiscono un tracollo massiccio). Sullo sfondo dei tafferugli tra polizia e studenti di ieri e di oggi, l’immobilismo imperiale della facciata fascista dell’Università “La Sapienza” che, ormai, potrebbe ben trasformarsi in spazio museale, in simbolo dell’intemporalità di un paese con lo sguardo rivolto al futuro e i piedi ben piantati negli anni Settanta.
Poi il Sud. Per lo più assente, sembra eruttare nella storia italiana sporadicamente, come pura forza della terra. Terremoti, alluvioni, catastrofi varie. Le fotografie restituiscono un paese con due temporalità inconciliabili. Una temporalità lineare, o quasi, che ha la sua idea di progresso, i suoi epicentri politici, economici, culturali. Roma, Milano, Torino. Poi ci sono immagini racchiuse in una temporalità mitica, in balìa della ciclicità della stagioni, più che della storia. Anche i morti di mafia, a guardarli bene, sembrano vittime della violenza cieca della natura. Anche le devastazioni di Capaci e via d’Amelio, paiono fingersi terremoti o alluvioni, più che vili attentati.
Viene da pensare, guardando tutti questi morti ammazzati, a una storia che, come in un dramma shakespeariano, reclama costante le sue vittime catartiche. Eccoli, i cadaveri in esposizione, come un tributo pagato alla storia italiana per mandarla avanti: i corpi tumefatti di Mussolini e Claretta Petacci, quello in posa cristologica del bandito Giuliano, quello supino, come preda del sonno, avvolto nella coperta nel bagagliaio della Renault 4, di Aldo Moro. La visibilità contrasta col pudore delle lenzuola stese a coprire magistrati, giornalisti, uomini dello Stato massacrati negli anni di piombo o nelle lotte di mafia.
Ecco, questa visibilità ci appare oggi come un lapsus collettivo, una confessione pubblica dell’inconscio italiano. Se tra quelle lenzuola insanguinate c’è la tragicità della cronaca, nell’esposizione di quei cadaveri celebri c’è, all’opposto, la logica implacabile della provvidenza italiana, l’ineluttabilità, la ritualità teatrale del sacrificio che manda avanti gli ingranaggi della nostra storia. Ricercavo, in quel formidabile pamphlet e insuperato modello di indignazione che è l’Affaire Moro, un passo che chiude uno dei primi capitoli: «Bayle credeva che una repubblica di buoni cristiani non potesse durare. Montesquieu correggeva: “una repubblica di buoni cristiani non può esistere”. Ma una repubblica di buoni cattolici italiani può esistere e durare. Così».
Provvidenziale e sanguinario, il movimento di questa storia accompagna immagini note e meno note, icone e vergogne nazionali. È un percorso che, oltre a “rinnovare emozioni dimenticate”, come dice il direttore all’agenzia Giulio Anselmi, potrebbe servire soprattutto ai più giovani. Una confutazione dell’eterno presente dilatabile in cui sono persuasi di vivere, impossibilitati, anche da assurde rivoluzioni pedagogiche ormai istituzionalizzate, a distinguere il “prima” dal “dopo”, a collocarsi in un punto preciso della storia del loro paese.
È stata lodata l’idea di introdurre ogni decennio con una gigantografia femminile, da Anna Magnani per gli anni Quaranta a Federica Pellegrini per gli anni Zero. La cosa, tuttavia, suona come quota rosa dell’immaginario collettivo. Pare, insomma, compensare il fatto che poi le donne effettivamente ritratte negli scatti siano poche; per lo più le solite reginette dei concorsi di bellezza o le dive del cinema italiano, colte nelle voluttuose celebri pose che sappiamo. Ma ci riscatta una straordinaria fotografia del 1979 “piovuta dal futuro”: un aitante Berlusconi con riporto a destra in visita a Miss Italia; lui piccolo, ripreso di spalle, seduto su una sedia tra bellezze in costume che lo sovrastano con le loro gambe lunghe. Perennità e trasformazione.
Andrea Minuz
Articolo uscito sul Riformista il 28 ottobre 2011
Rispondi