A qualcuno è (quasi) piaciuto. Marchesini su “Bella addormentata”
di Matteo Marchesini
È davvero così brutta, la Bella addormentata di Marco Bellocchio? O viceversa è un’opera ingiustamente, frettolosamente archiviata? Credo che nessuna di queste posizioni rifletta il sentimento provato, davanti al film, da molti spettatori non prevenuti e neppure aprioristicamente indulgenti. Che è un sentimento più blando e insieme più radicale: la perplessità. Una perplessità ormai di lungo corso, per il pubblico anche più affezionato al regista. E ciò che rende perplessi non è l’intento didascalico, più sobrio qui che altrove. Tutto sommato, la politica resta un ronzio televisivo di fondo, quasi senza commento; e i rari scorci grotteschi sono poca cosa rispetto a quel che abbiamo visto nella realtà di questi anni. Abbondano, anzi, gli accorgimenti escogitati per attribuire le diverse opinioni sulla vita e sul caso di Eluana Englaro a personaggi ugualmente umani. Semmai si può discutere dell’ingenuità con cui vengono dosati questi accorgimenti. D’altra parte è vero che Servillo, il senatore che ha aiutato la moglie a morire e che medita di staccarsi dalle posizioni del gruppo berlusconiano, acquista una funzione un po’ troppo esemplare. Ma questo eccesso di esemplarità non è tale in assoluto: lo è solo rispetto a un contesto non propizio. In generale, si possono fare ottimi film con un livello ben più alto di unilateralità, con il più spinto, brechtiano e fazioso didatticismo. Non è questo il punto. Il punto è che, come gli capita ormai da troppo tempo, Bellocchio ha girato due film in uno, due film che convivono schizofrenicamente senza amalgamarsi: da una parte c’è quello tutto prosaicamente “contenutistico”, dall’altra quello che si sprigiona dalla sua vena grottesco-visionaria. A volte il contenutismo è così sfacciato da sfiorare la più disarmante delle banalità: ma ecco allora che una fotografia incongrua, il raptus improvviso di un personaggio, un ritmo assurdo e straniante arrivano a contraddire, a “sfasare” la più sciatta delle cronache. Il Bellocchio che ha l’ansia di tradurre subito in immagini certa retorica sociologica, certe “idee” o certi “fatti”, combatte sempre contro il Bellocchio fantastico, cui interessa soltanto una certa gestualità accesa, patologica, da “diavolo in corpo”. E l’equilibrio non si trova. Cos’è, infine, Bella addormentata? È la storia del riflesso che gli ultimi caotici giorni di Eluana disegnano in alcune esistenze – quelle di un parlamentare, di una ragazza cattolica, di un’attrice con la figlia in stato vegetativo, di un medico che salva una tossicodipendente dal suicidio e le spiega che come lei è libera di tentare d’ammazzarsi lui è libero di provare a tenerla in vita? È davvero questo che abbiamo visto, in due ore di cinema? O il cuore del film non è invece, iperbellocchianamente, la traduzione plastica di pulsioni psichiche violente e dissolutrici, solo provvisoriamente attutite da improbabili, poetici atti d’amore? È più importante il “film su Eluana”, o è più importante la consueta tendenza a inventare scene di parossismo (assalti agli ospedali, bicchieri tirati in faccia, corpi che animalescamente si dibattono, comportamenti ossessivi o bipolari, preghiere assurdamente urlate, spine staccate di colpo, recite teatrali su cui si convoglia la violenza che non si riesce a mettere nel linguaggio quotidiano)? E il vero Servillo è quello che prepara il suo bravo discorso di dissenso, reso ironicamente vano dalla morte della Englaro, o non è piuttosto quello che vaga come uno spettro in una Roma i cui scorci più oleografici son trasformati nel sinistro sfondo mentale del suo cupio dissolvi? Tra i due film, tra la patetica ansia dichiarativa di certi dialoghi e la gratuità di certe virate oniriche, si vedono ancora i precari punti di sutura. D’altra parte, sembra che Bellocchio non possa rinunciare a nessuno dei due aspetti. Quando metteva in scena le bislacche teorie di Fagioli, era facile tradurle tutte in pura visionarietà: ma allora questa visionarietà diventava involontariamente comica. Il fatto è che l’attrito della “tesi” gli serve; ma come dimostrano film altrettanto sdoppiati (L’ora di religione, Buongiorno, notte…), la cosa difficile è poi rendere la tesi omogenea alla propria fantasia naturale, cioè evitare di produrre opere un po’ didattico-cronachistiche e un po’ oniriche. Ovviamente anche i suoi più accaniti detrattori devono ammettere che un punto di perfetto, travolgente equilibrio Bellocchio l’ha raggiunto: ma sta lontano, agli esordi, in quei Pugni in tasca la cui ombra lo insegue ormai come una maledizione.
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