Post. Il prefisso con cui giochiamo a fare i posteri
Una decina d’anni fa uscì a Londra The Dictionary of Fashionable Nonsense, uno sciocchezzaio che raccoglieva i luoghi comuni, le parole-totem e le astruserie gergali correnti nel mondo accademico, dalla A di Alienazione alla Z di Zeitgeist. La voce d’onore spettava naturalmente a «postmodernism», presentato come il pinnacolo di tutto l’edificio teorico contemporaneo e come un gigantesco passo avanti nella storia del pensiero, al punto che gli autori concludevano su una nota di sottile preoccupazione: «Sono tutti un po’ in ansia al pensiero di cosa accadrà quando arriverà il post-postmodernismo — ma forse sarà esattamente la stessa cosa, solo di più». Come tutti i divertimenti accademici (i divertimenti, cioè, di chi non sa divertirsi senza secchioneria), quel dizionarietto satirico aveva un fondo di serietà: il post-postmodernismo è puntualmente arrivato, anzi si era cominciato a parlarne già negli anni Ottanta, e oggi c’è chi riesce a scrivere in tutta austerità, senza un’ombra di senso del ridicolo, volumi fitti di note a piè di pagina sulla «condizione post-postmoderna». La nave dei folli è metafora antica e abusata, qui siamo semmai alla filosofia del motore in folle: quando il linguaggio non fa più attrito con la realtà, può salire di giri e rombare grandiosamente; gli ascoltatori se ne staranno a bocca aperta davanti a una tale esibizione di potenza, ma la macchina non si sposterà di un metro dal parcheggio. Continua a leggere su La Lettura.
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