Guido Vitiello

Le vacanze (mancate) di Monsieur Marchesini

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6a00d8341c710a53ef014e8a3ba465970d-800wiIn occasione dell’equinozio d’autunno, e soprattutto per non lasciare ai Righeira l’esclusiva della celebrazione della fine dell’estate (un monopolio quasi trentennale va spezzato a un certo punto, non foss’altro per fisiologia democratica), UnPopperUno è lieto di ospitare il diario agostano di Matteo Marchesini (già titolare di una stanza tutta per sé), che di spiagge e di ombrelloni ne ha visti ben pochi. Insomma, le vacanze mancate dell’autore di Atti mancati. Il diario è stato originariamente pubblicato a puntate sul Foglio. È piuttosto lungo, ma d’altro canto ci attendono un lungo autunno, un lungo inverno e una lunga primavera, c’è tempo. Buona lettura e buon cambio di stagione.

Questo diario sarebbe potuto iniziare a Creta, isola che non conosco, accanto a Chiara, ragazza che pure non conosco granché. Invece a scombinare i piani è arrivata una tremenda otite doppia con febbrone. Non è la prima volta che mi capita, in situazioni analoghe. Così da una settimana sono chiuso in casa a Bologna. Otite: malattia infida, dolorosissima e vagamente ridicola, che irrita il malato e i suoi vicini: sembra impossibile che per una cosa del genere si debbano rivedere i propri piani. Chi l’ha, rimpiange di non essersi piuttosto fratturato virilmente una gamba giocando a calcio (invece l’otite l’ho presa nell’unica puntata in piscina dell’anno, tentata grottescamente per rimettermi un po’ in forma). Le orecchie gonfie, poi, invitano a una femminea indiscriminata commozione, e a un eccesso d’astrattezza. In questi giorni ciondolo davanti ai pacchi di plaquette poetiche accumulati sulla scrivania, che mi arrivano per posta con proterva richiesta di recensione, e per la prima volta quei versificatori stalker mi ispirano pietà. Davanti al messaggio Fb di una signora, che diceva di avermi chiesto l’amicizia perché “facebook me l’ha segnalata, e io ho bisogno di farmi amici”, mi sono perfino messo a piangere, malgrado la signora abbia aggiunto subito dopo il link a una sua raccolta di versi di cui “La prego di parlare sul giornale”. Poi c’è l’astrazione. L’otite fa diventare sordi: il mondo esterno arriva attutito, come una tenue copia di quel che si svolge nella testa. Ogni rumore tende a uniformarsi agli altri. Le voci gentili di amici e parenti che offrono aiuto non sono così diverse da quelle minacciose dei committenti che reclamano lavori arretrati. Tutto sfuma in un generico mormorio, e l’io resta solo, murato nel suo rigonfio silenzio: dall’otite all’idealismo filosofico il passo è breve. Ma, dicevo, non è la prima volta che questo morbo infido mi colpisce in una situazione del genere. Anzi, posso dire che in almeno tre occasioni cruciali ha cambiato il corso della mia vita, come la famigerata influenza di Trotskij, sbarrandomi insieme la via al Mare e a una Donna, queste entità così simbolicamente fraterne. Certo sarebbe superstizioso costruirci sopra una teoria. Ma d’altra parte, come dice Giorgio Manacorda, è sempre tramite un atto superstizioso che diamo senso a ciò che ci accade, collegando i fatti con un fulmineo pensiero analogico, poetico. E a proposito di superstizione e poesia, ora che ci penso la prima fitta d’otite l’ho sentita sabato 27 luglio, mentre un giornalista mi intervistava sui 50 anni del Gruppo ’63. Con perfidia, ho paragonato il Gruppo alla Scapigliatura degli anni ’60 dell’800: in entrambi i casi, dicevo, si è trattato solo di un modesto corso d’aggiornamento, con cui si è reagito agli umanesimi nostrani (risorgimentali, resistenziali) importando dall’Europa un po’ di novità decadenti e avanguardistiche. E proprio mentre lo dicevo, ecco che l’orecchio cominciava a far male. “La maledizione del Gruppo ’63”: buon titolo per un romanzo scritto dai suoi membri più ludici.

P.S.: Oggi sto un po’ meglio, e mi rimetto a leggere. Sul comodino ho i saggi di Salvemini. Mi imbatto subito in una frase che canzona l’idealismo, dove “il bene (è) mezzo male e il male mezzo bene, il briccone (…) mezzo galantuomo” e il galantuomo mezzo briccone. Buon antidoto, per le derive dell’otite. Più in là, Salvemini racconta che all’università non capiva nulla delle lezioni di filosofia, e non esita ad ammettere che per non perdere la borsa di studio imparò un manuale a pappagallo. Anche fatta salva l’ironia, quale altro intellettuale italiano racconterebbe un aneddoto simile? Qui la commozione non è patologica.

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Bologna, via San Felice, 6 agosto. Sudando e colitizzando, mi trascino fino all’alba dal letto al divano, e dal divano al lettuccio della camera stretta e cieca per gli ospiti, che un amico cinico ha ribattezzato “la stanza di Aldo Moro”. L’antibiotico ha fatto del mio intestino un deserto, e l’ha chiamato pace. Ma almeno niente febbre. Dài, che si esce. Mi infilo i pantaloni, scendo a prendere un cornetto, e decido di concedermi il massimo della voluttà: mangiarlo sentendo la rassegna stampa radicale. Purtroppo è impossibile: o mastico o ascolto, l’otite non consente di fare le due cose assieme. Però stamattina son contento, perché sulla mail, anziché poesie di versificatori stalker, ne ho trovata una di una poetessa vera, Mariagiorgia Ulbar. MG ha trent’anni, e un volto da inquietante Betty Boop. Ha appena pubblicato “I fiori dolci e le foglie velenose”, libro di versi tanto bello quanto è orrenda la copertina (cioè molto). A volte mi manda testi nuovi, così, senza commenti. Ecco quello di oggi: “Poi so che nemmeno qui mi fermerò/e sarà stato un piede pestato, un morso d’aria/e guarda come corre in direzione contraria/quest’auto, così che sembra fermo il fiume”. Le sue poesie sembrano pietruzze misteriose cadute da chissà dove, frammenti sapienziali tratti dalle esperienze di un io un po’ felino, che fiuta luoghi e persone con circospetta avidità, che si scava tane e rapporti sempre provvisori. A volte Mariagiorgia mi ricorda Penna, così la chiamo “Pennino”. Ma è ora di riprendere le letture di lavoro. Per una curiosa coincidenza, mi devo occupare dei due autori che nel ‘900 italiano, secolo corsaro e millantatore, più rappresentano la Probità: Primo Levi, con la sua prosa equa, limpida, sinistramente calma, e il già citato Salvemini, con la sua prosa euclidea, icastica, incalzante. Ottime letture, per un convalescente. Niente fumi idealistici o languori femminei: solo una solida, corroborante positività di sguardo. Torno a uscire nel pomeriggio pieno. Fuori, gli unici rumori vengono dagli alimentari bangladesi e dai bar cinesi, davanti a cui si fermano i pochi turisti stranieri e i gruppi di pensionati con cappellino da pescatore e pantaloni a mezza gamba, calzini al ginocchio e sandali frateschi. Questi anziani, che anglofonizzando il dialetto l’autore di un bestseller locale chiama “umarells”, sono gli inconfondibili ex operai bolognesi, handymen (qui “ciappinari”) sempre impegnati a monitorare il tempo e i lavori pubblici. Una volta ho scritto che uscendo in strada a Bologna, i personaggi che si ha più probabilità di incontrare sono un umarell, un fuorisede o un giallista: dato che ormai non si contano gli aspiranti Chandler, cioè gli epigoni di Lucarelli che descrivono bovaristicamente la città come una metropoli americana. Ora i fuorisede sono in vacanza. I giallisti chissà: dietro ogni passante potrebbe nascondersene uno. Ma un’altra scuola letteraria sta dilagando (a Bologna ogni trovata estetica diventa subito scolastica): quella degli stralunati che imitano Celati e Cavazzoni. Gente che bamboleggia indugiando su un finto parlato anacolutico ormai collaudato come un latinorum, e che riscriverebbe questo pezzo così: “Oggi, perdonate se mi fermo su ‘ste robe, sudo come un matto e c’ho un mal di pancia, e allora giro, che io c’ho un letto, e poi un divano che fa da letto, e poi un altro letto in una camera che un mio amico, che è uno un po’ cinico, chiama la stanza di Moro. Comunque mi son messo le braghe (loro non dicono pantaloni, solo braghe), ho preso giù un cornetto, e mi son detto va’, proviamo a mangiarlo sentendo la radio, che poi però è successa una cosa stranissima, cioè che io masticavo e diventavo sordo, poi finivo di masticare e ci sentivo di nuovo…”. Ma scrittori a parte, quant’è bella Bologna ad agosto. Sdegnata dalla massa dei turisti e dai propri abitanti, perde le sue inutili arie da piccola capitale freak: e torna a essere una silenziosa scenografia padana, nitida e immobile come una stampa dei Basoli.

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La mia amica M. sta per pubblicare un romanzo da una grande casa editrice, e gli editor le propongono titoli assurdi. Mi chiama alle 9 del 7 agosto, interrompendo un promettente sogno polinesiano, e inizia a sfogarsi. “Ogni giorno ne inventano una peggio. Vogliono il cuore nel titolo: Come una pietra sul cuore, Le terre rosse del cuore, Seppellite il mio cuore non so dove… Ma come faccio a dir sempre no? Adesso, vedendo che faccio la schizzinosa, si son messi a cercare citazioni dotte col cuore dentro… se non è cuore è amore, e magari spunterà un fiore… ma mi ascolti?”. “Sì scusa, è che sento poco, ho l’otite”. Cuore, amore, fiore. Fingono di non sapere, questi editor, che fare un buon titolo così è la cosa più antica e difficile del mondo? Ma loro vogliono certo una frase un po’ sbarazzina un po’ struggente, forse hanno ancora come modello “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” dell’inesistente Leroy, maledettino iperbolicamente costruito a tavolino da una quarantenne. “… Oppure provano con gli ossimori, la geometria…” continua M. “Che ne pensi di Il teorema del cuore?, mi ha detto ieri il capo. E me lo ha detto, guarda, con un ghigno che inequivocabilmente significava: allora, è abbastanza fine per una intellettuale del cazzo come te?”. Già, questo è il punto. M. è un’intellettuale. Mentre oggi, il rapporto editoriale perfetto è quello tra un editor squalo e informatissimo, e un narratore disarmato e naif, materia ottusa e malleabile pronta a subire qualunque trucco. Per far sorridere la mia amica, le racconto un aneddoto. In maggio, a Pavia, ho ascoltato la presentazione di una romanziera uscita con Mondadori, una tipa neanche tanto giovane e un po’ new age. Si teneva una mano sul cuore (appunto), e come se descrivesse una Damasco spiegava che “a un certo punto del mio percorso ho incontrato la scuola Holden”. Prima del romanzo – di sicuro editorialmente indotto, ma da lei presentato come un’illuminazione – scriveva solo racconti brevi: genere che comunque non si sentiva di svalutare. “Anche scrittori importanti hanno scritto quasi solo racconti” ha detto senza batter ciglio. “Come Landolfi, che per questo era un po’ giù” (proprio così, “un po’ giù”) “ma poi qualcuno… credo i suoi editor, gli han detto ma no Tommaso, sei un grande!”. I suoi editor. Ecco l’autrice perfetta: quella che crede l’editor una figura atemporale, già svettante all’inizio del Genesi (in effetti il serpente…). Senza dubbio uno staff stava dietro a Omero e lo ammoniva: “taglia un po’ tutti ‘sti cataloghi che annoiano!”. O vogliamo parlare del duro lavoro di editing che devono aver fatto su Dante, costringendolo ad alternare i discorsi teologici con qualche buona sorpresa narrativa? Ce l’ho fatta, M. riattacca ridendo. Io scendo a far colazione, e finisco alla libreria Ambasciatori. Forse ho tolto un po’ di depressione alla mia amica, ma ora si è scaricata su di me. Guardo tutti quei titoli fatti in serie, e mi viene la rabbia. I camerieri che portano i piatti dell’osteria Eataly passano così vicino ai volumi che verrebbe voglia di fargli lo sgambetto, per vedere i monti di tagliatelle rovesciarsi sui “Quattro etti d’amore” della Gamberale. Invece esco, e vado a sedermi in piazza. Di nuovo, sarà l’otite, ma la rabbia sfuma in pietà, quasi in commozione. Che abbia bisogno anch’io di un romanzetto col cuore in mano? Ma no, preferisco separare gli ambiti: se m’intenerisco, abbandono il “Gelo” inospitale di Bernhard, che mi son portato da leggere, e guardo sul portatile la colonna destra di Repubblica, alla ricerca di panda che starnutiscono. Ora poi non ce n’è bisogno: basta che contempli la bimba seduta qui accanto, che disegna il corpo umano. La segue il nonno: “così l’orecchio… l’occhio… la mano…”. “E il cuore?” fa la bimba. Il nonno esita, poi prende fuori da una sporta un carciofo: “così, vedi? Il cuore è un carciofo… ma sensibile”. Il cuore è un carciofo sensibile. Mi auguro che nessun editor di M. stia passando di qua, o la mia amica è spacciata.

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In queste ultime estati passate in città, la trattoria sotto casa non mi ha mai tradito. “Danio” non chiude un giorno, né alza i prezzi. Asseconda la mia abitudinarietà, il mio gusto per la cucina rozza e sostanziosa, e la mia passione per gli esercizi commerciali trasformati in centri sociali dove la gente tesse una pigra quotidianità, lasciando trapelare le sue storie. Entro dalla porta a vetri che reclamizza il bisonte, e riposo gli occhi sul perlinato. Il padrone, ciociaro dal torace enorme, parla in broccolino agli stranieri, siede ai tavoli con gli avventori soli, sconsiglia i dolci stantii, e ingaggia brevi duelli retorici tra la propria saggezza rustica e l’erudizione enciclopedica di Giorgio, cameriere giovanissimo e marziale. Giorni fa avevo scritto un racconto ambientato qui, mettendoci gli habitué: l’impiegato che sembra un pigionante di Tozzi, i muratori casertani con facce da ex ragazzi pasoliniani, la quarantenne che si fa pagar le ferie da un industriale alla Grosz ma limita con abilità la loro confidenza… Poi, finito il racconto a ora di cena, avevo chiuso il file ed ero andato a ritrovarne i personaggi da “Danio”. Ma qui, in più, c’era una ragazza che ci aveva portato il fidanzato, descrivendogli la trattoria come un posto tipico. Indicava i clienti quasi con le mie parole. Solo che tra tozziani, pasoliniani e grosziani, aggiungeva me: “… e quel ragazzo con barba e occhiali grossi, trasandato, dev’essere uno scrittore come lo rappresenterebbero Moretti o Scola, che cerca spunti per un libro”. Non mi ero mai pensato interno al quadro; stavo per protestare, e intanto volevo dirle che tra Moretti e Scola c’è differenza: ma così avrei confermato il suo parere. Allora, colpito in prima persona, ho iniziato a percepire anche gli altri in modo meno pittoresco; e ho poi riscritto il racconto. Oggi, 8 agosto, ordinando una sontuosa cotoletta, ci ripenso, e mi dico che in quella mia presa di coscienza si annidava un’idea per un saggio. Non è il pittoresco, il gran problema della letteratura e dell’estetica italiana? Pittoresco, per le anime elementari, è esotismo un po’ kitsch; ma non è pittoresco anche lo stravagante intellettualisticamente allusivo, il facile grottesco e il surrealismo che fan sentire intelligenti i pubblici semicolti? Sempre questo ci ipnotizza, solo questo ci pare Poetico: il colore esagerato, la caricatura retorica ed estetizzante del reale. Non è così nella nostra secolare tradizione letteraria alta e bassa? Non è così nel ‘900, da Pirandello ai prosatori d’arte, dai neorealisti a Gadda, da Malaparte a Pasolini, da certa neoavanguardia fino all’odierna letteratura di consumo (Camilleri e i nuovi regionalisti, i dozzinali engagés degli anni zero)? E non è così in tanto cinema, da Fellini a Bertolucci e Sorrentino, dai vari commedianti all’italiana ai registi per turisti tipo Tornatore? Certo, a volte la nostra realtà è davvero bizzarra e grottesca: a volte si disegna gobbo chi gobbo è, dicevano Brancati e Sciascia. Ma più spesso, l’abietta o edificante nota di colore è un modo corrivo e cinico per far presa, esorcizzando l’indagine rigorosa di se stessi e del mondo. Se la differenza tra giornalismo e letteratura è che il primo cerca l’uomo che morde il cane, mentre la seconda descrive in modo non ovvio il cane che continua a mordere l’uomo, noi tendiamo ovunque al giornalismo, raffinato o grossolano, ma sempre basato sull’effettaccio, su mere varianti di cliché e macchiette, che pretendiamo poi siano simboli spietati di chissà quale deriva o satire di chissà quale acutezza. Così anche ritraendo una trattoria, pensavo, si costeggia presto un film scritto da Tonino Guerra e girato da Virzì. In quel momento mi ha scosso Giorgio, urlandomi se volevo il caffè; e i pensieri, come un puro epifenomeno della digestione cotolettesca, si sono sfilacciati. “Alto” ho detto. Poi sono uscito con l’idea di prendere appunti, e invece ho vagato per il centro. Mi si sono finalmente stappate le orecchie: ma tanto intorno c’è lo stesso silenzio di prima.

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“In mezzo mar siede un paese guasto”: così, nel XIV canto del suo Inferno, il virgiliano Dante Alighieri parla di Creta, opponendo al suo presunto destino di decadenza l’età umana dell’oro che trascorse sulle sue acque (anni fa, Angiolo Bandinelli ha tradotto con “Paese guasto” il “Waste Land”, osservando che il dantista Eliot ebbe forse presente quell’espressione mentre sceglieva il titolo del più noto poemetto del ‘900). Il verso mi torna in mente non appena oltre il vetro affiora dal mare l’aspra e frastagliata bellezza dell’antica isola serpentina, oggi minacciata dal guasto greco, ma spero non del tutto abbandonata dal mito. L’apparizione è meravigliosa, tanto più se mette fine a un volo di due ore passato col bombardamento dell’otite come colonna sonora. Ebbene, sì: ammesso che la città di questa “Estate in città” dovesse esser Bologna, ho tradito il titolo della rubrica, vincendo una sedentarietà annosa, e lasciando la torpida provincia emiliana per cedere alle lusinghe minoiche della mia amica Chiara. Mi sono imbarcato sul primo bazar volante di Ryanair, e nel tardo mattino del 9 agosto sono sbarcato a Chania, nel conteso meticcio incrocio dei continenti mediterranei. Come al solito, vedere Chiara mi mette allegria. Quando sorride somiglia un po’ alla cantante Elisa, e quando sta seria, col suo taglio a maschietto, alle foto della Ginzburg giovane. Ma c’è qualcos’altro in lei, c’è qualcosa di più nel suo minuto profilo sbarazzino e nelle sue movenze svelte, volitive: sembra il monello di un fumetto d’antan. In realtà, adesso che per una delle tante coincidenze di cui è già costellata la nostra breve amicizia so che Lastrego e Testa si sono un po’ ispirati a lei bambina nel disegnare la loro “Giovanna”, mia lettura prediletta dell’infanzia, non posso fare a meno di associarla a quelle storie insieme domestiche e avventurose, che purtroppo nessuno pubblica più. Subito sopra Chania, io e Chiara siamo ospitati da Tiziano e Costanza, una gentilissima coppia italiana che otto anni fa, con saggia leggerezza, ha deciso di evadere dalle nebbie torinesi e si è coraggiosamente ricostruita una vita qui. Entro sotto la tettoia della loro casa, e li ringrazio nel mio modo un po’ orso; ma poi, gettando un’occhiata verso la porta, mi accorgo che col vero anfitrione devo ancora fare i conti. Creta, si sa, è terra di dèi e di miti bambini: Zeus neonato nascosto sull’Ida, e anche il Minotauro, che in fondo, come dice lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, non è affatto “l’infamia di Creti”, ma solo “un bimbo abbandonato”. Così, anche davanti al mio nuovo alloggio si erge una dea bambina, bellissima e saltellante, coi capelli biondi e le unghie scicchissimamente rosa. Si chiama Letizia, ha quattro anni, ed è evidente che devo subito renderle i miei omaggi. Allora mi ricordo che nel trolley, consigliato da Chiara, ho infilato alcune offerte votive per la piccola dea. Le consegno un po’ di libri illustrati, tra cui due albi di Lastrego e Testa che mia madre ha ripescato in cantina per l’occasione. Letizia mi concede un sorrisino riservato ma promettente, e inizia a sfogliarli. Solo in quel momento mi rendo conto che due volumi su quattro, il “Re Mida” di Altan e il gran classico “Chi me l’ha fatta in testa?” in versione pop-up, hanno argomento scatologico. Ma rifiuto di soffemarmi su qualunque spiegazione simbolica: l’importante è che la dea abbia accettato le offerte (la cacca la farà ridere a crepapelle, come fa ancora ridere me a trentatré anni?) e che non mi abbia riservato il pollice verso inappellabile dei bambini. Più tardi, in una pasticceria di Chania, mentre mangiamo l’impasto di ricotta cannella e zucchero della succulenta torta bugazza, che io innaffio col granuloso caffé greco, Letizia mi fa addirittura l’onore di scegliermi come trono, e di farsi leggere “Giovanna sogna un drago” col mio vocione più rotondo. Finita la lettura, provo a imitare la saggezza levantina che sogno di leggere nello sguardo del pasticcere, e mi abbandono a una sazia sonnolenza: Creta mi ha accolto con favore.

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Creta, 10-11 agosto. I miei anfitrioni mi portano in giro per Chania. Mentre passiamo davanti all’agorà, Tiziano chiacchiera con un suo amico ingegnere, che data la crisi s’è reinventato bagnino. Racconta che c’è stato un assalto al comune: pare siano sul punto di disfarsi dei vigili. Intanto Costanza mi indica le deliziose villette di un secolo fa, cadenti e infestate dalle erbacce, che a una a una vengono rase al suolo e sostituite da orrendi condominii. C’è a Creta un vero genio del cemento, che pervade anche i luoghi più selvaggi. Più tardi, attraversati i vertiginosi dirupi dell’estremo sud dell’isola, lo ritroveremo alle Tre Chiese: perfino in un posto pressoché irraggiungibile, tra le rocce scoscese e un minimo lembo di spiaggia, questo popolo di pastori e mercanti ha realizzato un embrione di sprawling, rompendo l’incanto con muri assurdi e pacchiane insegne coperte di polvere. Ma a volte, anche i cretesi si ravvedono: a Chania, ad esempio, hanno appena cancellato l’incongrua costruzione che parassitava l’antica moschea, aprendo una suggestiva piazza sul porto veneziano. E’ una piazza fatta apposta per le danze sfrenate di Letizia, la dea bambina che mi ha accolto con favore nella casa sopra la città. Ora la nostra amicizia si è stretta; o meglio, Letizia mi ha incluso nella cerchia dei suoi famuli. Le piace farmi mettere a quattro zampe e salirmi sopra. In apparenza sono un tradizionale cavallo; ma più che montarmi mi salta da un fianco all’altro tirandomi i capelli come fossero corna, con un’acrobazia non troppo diversa da quella con cui le sue eburnee antenate tentano il salto del toro nelle pitture di Cnosso e di Iraklion. Ogni tanto però, dopo avermi impartito qualche secco comando, con capricciosi pretesti ben degni delle volubili dee greche Letizia mi spinge via di colpo. “No!” grida come unica spiegazione (pare che un “no” da enigmatico e perentorio demone socratico sia stata la sua prima parola). In questi frangenti è difficilissimo avere a che fare con lei. Ma Tiziano ha un modo speciale di ammansirla: anziché contrariarla la asseconda, finché l’ira di Letizia, sconcertata dalla poca resistenza del genitore, si dissolve come una bolla di sapone. E’ in fondo un’applicazione psicologica dell’aikido di cui Tiziano è maestro. Più conosco lui e Costanza, più la mia ammirazione cresce. Posseggono infatti quella scienza della natura e quella ecologia della vita quotidiana che a me mancano del tutto. Lui insegna arti marziali e compone per chitarra, lei fa la botanica. Mentre ceniamo sul terrazzo, in mezzo al concerto delle cicale e all’odore stordente del gelsomino, tentano con pazienza di insegnarmi a distinguere Venere da Saturno, e di convincermi che posso sforzarmi di non chiamare tutte le piante cretesi “ulivi” o “macchia mediterranea”. Quanto mi sembra povera, davanti a loro, la mia sapienza sorda alla vita pratica e alle armonie cosmiche, tutta concentrata su quelle sfumature dei rapporti umani che si pesano col bilancino del narcisismo e dell’utile letterario! Tiziano, poi, mi mette quasi soggezione: è uno di quegli uomini che hanno un modo saggio di fare anche le minime cose, e mi parla della relazione tra meditazione e stiraggio. Una mattina, mentre le donne sono fuori, improvvisiamo un dialogo filosofico. Lui olistico, io scisso. Lui deciso a sostenere che il conflitto si può arginare con la cooperazione e che il dolore del singolo va visto nella prospettiva di una pace più ampia, io fermo all’idea che niente si redime. Lui che cita Jung, io che nascondo dietro Adorno un pessimismo assai privato. Ma alla fine, quando le donne tornano a chiederci cosa vogliamo fare nel week-end, ci troviamo d’accordo: “scegliamo una spiaggia, e rilassiamoci”. Però non abbiamo fatto i conti con Chiara, che ha già steso un esercito di mappe e tesse programmi complicatissimi. Tentiamo di dissuaderla: ma basta guardarla per capire che al suo attivismo di scalatrice e funzionaria editoriale piemontese s’è aggiunto l’invincibile spirito del matriarcato minoico, di fronte al quale neppure l’aikido può nulla.

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“Questa è la sala del pavone… questa è quella della pecora che morde… qui ci mettevano il re prigioniero… e questi…” conclude la guida indicando delle grosse giare “… erano i tamburi medici per quando avevano la febbre”. Per qualche secondo restiamo tutti perplessi e ammirati davanti all’oscura idea di un “tamburo medico”. La guida è la bimba Letizia, che i lettori di questa rubrica ormai conoscono, e che spiega a modo suo i labirinti di Cnosso. Del resto, perché le sue ipotesi dovrebbero valere meno di quelle del fantasioso archeologo Evans, che un secolo fa iniziò a stimolare la passione locale del cemento, e con l’innocente spudoratezza della belle époque montò sulle rovine un suo palazzo di sogno? Qui ogni ricostruzione è “katà ten àpopse tou Evans”, secondo il parere di Evans; e Letizia, se non altro, ha su di lui il vantaggio di essere cretese. Dopo la visita a Cnosso scendiamo verso il brullo meridione dell’isola, sfiorando villaggi pieni di gatti scheletrici e di bizzarri trattori, di chiesette simili a case private e di caffeucci dove si raccolgono uomini sempre più baffuti e ferini, vagamente somiglianti ai cri cri. Tra un viaggio e l’altro, e tra una recrudescenza e l’altra dell’otite, provo a lavorare un po’. A breve, devo mettere insieme per un manuale una panoramica sui saggisti del ‘900 italiano. Dando per presupposto Croce, sono partito da Salvemini, classe 1873. Tra gli scrittori nati nel decennio successivo, il saggista per eccellenza è senz’altro Cecchi. Spulcio una sua raccolta mentre prendo il sole a Matala. Passare dallo sbrigativo storico di Molfetta al cesellatore fiorentino fa uno strano effetto. Ogni tanto stacco gli occhi dal libro e mi assicuro che intorno a me ci sia ancora la ventosa spiaggia un tempo abitata dagli hippies, con le sue misteriose grotte e le sue scritte “Life is today, tomorrow never comes”. Infatti se a leggere Salvemini, anche quando parla dei chiusi uffici della burocrazia sudista, sembra sempre di muoversi in un’aria aperta e frizzante, a leggere Cecchi, anche quando parla delle avventure in Messico, sembra sempre di esser chiusi in un antro antiquario o nell’acquario dei suoi “Pesci rossi”. Passate le inquietudini giovanili, lo scrittore riporta tutto alla misura di farfalle nella teca. E a volte, alla misura di un’antica grettezza toscana. Indimenticabile, in questo senso, un aneddoto che Cecchi racconta non so più dove: una sconosciuta gli chiede di accompagnarlo per un tratto di strada, e si mette a piangere raccontandogli del fidanzato in guerra. Mentre piange, lo abbraccia. E il bottegaio Cecchi che fa? Controlla subito se il portafoglio è al suo posto! Qua e là, poi, si lascia scappare definizioni che bastano da sole a evocare tutta un’antropologia del nostro uomo d’ordine. Descrivendo lo stupro della “Ciociara”, non esita a dire che i soldati “le fanno la festa”. Ma al superbo stilista molto si perdona. E bisognerebbe ricordare che Calvino e Sciascia si capiscono meglio leggendo lui di Borges.

P.S.: a proposito di Sciascia. Citando sul Corriere una puntata di questa rubrica, Mastrantonio me lo consiglia come antidoto a un certo mito pasoliniano dell’intellettuale che rischierebbe di infettarmi. In verità, ho scritto molto contro quel mito, servendomi degli epigrammi antipasoliniani di Fortini. L’equivoco nasce dal fatto che ho parlato qui di un’amica “intellettuale”, a cui un grande editore in procinto di pubblicarle un romanzo continua a proporre titoli grotteschi col “cuore” dentro. Nel caso, però, ho usato la parola “intellettuale” solo in contrapposizione a “naif”, qualifica che ben si adatta a tanti autori pronti a farsi plagiare dagli editor. Ho poi aggiunto, citando implicitamente Saba, che mettere il cuore in un titolo è cosa non vietata ma difficile. Invece alla mia amica tentano di imporre frasi come quella che ho orecchiato per strada e citato ad esempio: “Il cuore è un carciofo sensibile”. Ossia, come ha chiosato un amico, mostruosi parti di un essere a metà tra la Marzano e la Littizzetto. O forse il cuore-carciofo piace a Mastrantonio?

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Sarà l’aura panica da manuale della spiaggia di Frangokastello. O forse saranno le parole di Tiziano, che mentre passeggiamo tra le dune mi parla delle sue discipline orientali, esaltando l’inazione e l’assenza di sforzo. Fatto sta che oggi, 14 agosto, dopo un lustro passato a sfornare articoli e saggi, inchieste e corsivi a un quasi ininterrotto ritmo giornaliero, mi abbandona di colpo quell’euforia pubblicistica di cui, in questo mese di continue scadenze editoriali, avrei più che mai bisogno. Mi sento usurato e svuotato dalla scrittura su commissione come non mi è capitato mai. Forse anche per questo di solito non mi concedo vacanze, che del resto i miei tirannici rimorsi continuano a farmi apparire del tutto immeritate per chi ha un lavoro informe come il mio: intuisco che se quel ritmo patologicamente occidentale di produzione si spezza, rischio di prendere un po’ troppo alla lettera i suggerimenti orientali di Tiziano. La sensazione non è nuova, ma nuova è la sua intensità. Con la nitidezza improvvisa che il mio amico attribuisce a certe sue illuminazioni krishnamurtiane, qui sulle dune di Frangokastello capisco che a forza di dilapidare le energie stilistiche sono ormai vicino alla soglia oltre la quale, come dice un epigramma di Fortini, “le mie parole saranno di un altro”: e magari apparterranno al giornalismo più sciolto, corrivo e furbastro, pronto ad adattarsi a qualunque spartito. Finora il mio dispotico Super-io critico ha sempre preteso che in ogni pezzo provassi a conciliare l’omaggio all’effimera occasione d’attualità con la solidità di qualche argomentazione capace di durare, e di passare indifferentemente da una pagina di quotidiano o di rivista a un libro. Ma malgrado sia applicato a un mestiere privo di orari fissi e perfino di gesti, questo esercizio richiede un difficile allenamento atletico, un po’ da velocisti e un po’ da mezzofondisti. Bisogna abituarsi a raggiungere a comando una specie di sovraeccitazione creativa, a tratti fulminea, a tratti resistente. Ed esaurita questa sovraeccitazione, anziché il riposo subentra spesso una depressione da dipendenza che dura fino all’articolo successivo. Intanto, nella propria determinazione a lavorare in piena autarchia e senza padrone, ci si è andati a ficcare in una situazione in cui i padroni sono mille: magari inclini a proposte straordinariamente lusinghiere o perfino regali, ma sempre nate da processi redazionali incontrollabili e insondabili, da un gioco di rapporti ambiguamente virtuali. Sarà il tramonto ipnotico sulla sabbia di Frangokastello, dove ora un bambino sta costruendo non un banale castello ma una chiesa ortodossa. O forse sarà il genio cretese dell’ozio, mischiato agli inviti tizianeschi all’introspezione. Fatto sta che oggi, 14 agosto, rifiuto di scrivere, e mi perdo a rimuginare sulle malattie professionali di quel proletariato pubblicista che, come diceva il vecchio Lukács, sviluppa la sua corruttrice falsa coscienza con rapidità sconosciuta a tutte le altre categorie di lavoratori. Forse i nostri “intellettuali” (perdoni Mastrantonio) sarebbero davvero engagé se anziché comporre a freddo retorici reportage su qualche tragedia nazionale si guardassero allo specchio e descrivessero i meccanismi, i compromessi e i prezzi del lavoro editorial-giornalistico. Ma anche per fare quest’opera di ecologia bianciardiana, un po’ di euforia ci vuole. Ora che mi manca, posso solo ripescare un epigramma-autoritratto scritto in un altro momento di crisi lavorativa. L’avevo perfidamente intitolato “Collaborazionismo”; e con un po’ d’impudenza lo riporto in coda a questa rubrica liberatoriamente anarchica, augurando buon ferragosto a tutti gli atleti da scrittura su commissione che hanno la cocciuta e infantile pretesa di non perdere l’anima bella:

Il redattore chiama e tu componi, limi

le frasi aguzze dentro certi limiti –

senza, per carità, farti mai alibi

di supposte censure: mentre calibri

lo sai che sono sempre casuali –

poi sfiori un tasto e il testo è già laggiù.

Tutto pulito, quasi senza mani.

Sul web trovi il bonifico domani.

Assapori la liscia servitù.

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Crepuscolo della vacanza cretese sulla spiaggia occidentale di Falassarna, che anche a Ferragosto, e col boom turistico di quest’anno, a un italiano sembra quasi vuota. Nella taverna balneare, assediato da gatti pelle e ossa che s’aggrappano alle tovaglie con violenza da uccelli hitchcockiani, divoro la moussakà più in fretta che posso. Ma finirla è impossibile: con quelle feline, infatti, spunta la testa bionda della bimba Letizia, che dopo il nostro pomeriggio di lanci con salvagente tra le onde pretende di coinvolgermi in un oscuro gioco tra l’altalena e lo scivolo, dove la sua immaginazione vede cavalli malati e navi corsare. In questi giorni avrei bisogno della sua continua sovraeccitazione fantastica. L’ansia da scrittura su commissione cresce, e non combino niente. Proseguo appena la lettura di Emilio Cecchi, prendendo appunti per il capitolo didattico che devo scrivere sui saggisti italiani. Il Cecchi più godibile è quello delle satire culturali, che Cases deve essersi studiate con cura. Nei “Pesci rossi” ce n’è una non male sul futurismo, allora in via di accademizzazione: l’autore immagina che nell’anno 3009 vengano ritrovati alcuni frammenti marinettiani, attribuiti dai posteri a tribù barbariche vissute in segregazione tra gli italiani evoluti del 1900, e regredite alla bestialità per aver interpretato alla lettera certe coeve filosofie dell’istinto. Ma i due pezzi migliori sono in “L’osteria del cattivo tempo”. In uno, Cecchi porta all’assurdo la moda crociana di scegliere nelle opere solo i rari momenti di lirismo puro. Descrive la foga con cui schiere di esteti tentano di far entrare la Vaticana “in una scatola di cerini”, salvando di ogni poeta appena un verso. Dante, spogliato delle “assurdità medievali”, è ridotto al soave distico su Trivia; di Leopardi, privato dell’ideologia “per le maestrine e i pessimisti”, resta “Dolce e chiara è la notte e senza vento”; Eschilo è tutto nell’ “otototoi” di Cassandra, Shakespeare nell’ “horror! horror! horror!” macbethiano. Nell’altro pezzo, dedicato al centenario dei “Promessi sposi”, Cecchi immagina come li riscriverebbero i suoi colleghi: il bozzettista perbenista Panzini inventerebbe una Gertrude dattilografa fanatica di Pitigrilli, che porta Lucia nel carnaio delle spiagge romagnole; i foschi Papini e Giuliotti farebbero uccidere subito don Abbondio dai bravi, “per insegnargli ad aver paura davvero”; mentre nella versione dell’irenico Baldini, i bravi caricherebbero gli archibugi a confetti, e tutto il romanzo si condenserebbe in una festa di matrimonio. Chissà, forse oggi Cecchi continuerebbe immaginando il moraviano postmoderno Siti che dipinge un don Rodrigo privato del senso di realtà da denaro e sadismo sessuale. Magari ipotizzerebbe un Celati e un Nori che incentrano i “Promessi” sullo scemo Gervaso, o che ne traggono una rocambolesca “Banda del Griso”; o un Busi che, tra una digressione e l’altra sull’inarrivabile stoicismo con cui lui autore ha superato l’età della peste, tratteggia la storia picaresca della serva dell’Innominato e baroccheggia golosamente sull’infanzia dell’artigiano Renzo, un tipo un po’ sporcaccino, che posa a maschione lombardo ma poi rimorchia quel che capita. In Lucarelli, la studentessa povera Lucia verrebbe fatta sparire dai tamarri della Lecco bene; mentre i Wu Ming farebbero del castello dell’Innominato un esperimento di contropotere. Ma basta. Mi perdo in pensieri oziosi perché non riesco a scrivere. Penso a un raccontino da consegnare per un’antologia, ma mi vengono in mente immagini incongrue. Invano cerco ispirazione nell’ormai familiare paesaggio chaniese: i bianchi quartieri residenziali, il golfo con l’isolotto, la strada che porta alla tomba di Venizelos, l’“astuto cretese”, come lo chiama Savinio in una esilarante biografia… Proprio da lì, spunta un camion che per un attimo mi appare come un pronto soccorso per l’immaginazione: “metaphorès”, c’è scritto sulla fiancata. Un camion di metafore! Ma poi ricordo che in greco le parole più altisonanti hanno significati per nulla metaforici: è solo una ditta di trasporti. La serata si conclude con un allenamento di aikido. Si cimenta negli esercizi anche Chiara, che se la cava bene. Come quando si impegna in un’azione, tiene le mani rigide, a taglio, e i pollici superopponibili a grilletto. Così brandisce la spada come fosse un fucile, e intorno alla danza rilassata e quasi languida di Tiziano e Costanza ne disegna una squadrata e marziale. Io, pigro, sto a fondo tatami con Letizia a fare le stesse mosse con due soldatini, accentuando il carattere più esaltante della disciplina: con minimi gesti, produciamo volteggi spettacolari. Poi però Letizia mi prende un braccio e mi fa una mossa vera: solo che io non so collaborare alla sua spinta carambolando bene a terra come spetta nell’aikido all’avversario, che in realtà ha la docilità di un partner. Ma lei si accontenta. Mi sorride: “ho vinto io, e hai vinto tu” dice, condensando in un perfetto aforisma lo spirito della disciplina e dei nostri giochi cretesi.

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Questo agosto, per me, è proprio il mese dei bambini. Appena tornato da Creta, ormai indissolubilmente legata alla quattrenne Letizia, il 17 vado a Firenze a incontrare per la prima volta Stefano Maccari, il figlio di due mesi del mio amico Paolo e di sua moglie Veronica. Con la sua boccuccia aperta a cuore e i suoi occhietti semichiusi, Stefano è un bellissimo bimbo dall’aria orientale. E’ tornito, quasi panciuto, e liscio liscio, senza le rughine da centenari di tanti suoi coetanei. E’ anche straordinariamente placido, ed emette rari indolenti versi di soddisfazione. Paolo indica fiero i suoi piedini che già gli s’impuntano sulla pancia, e per divertirci lo apostrofa con maschia grevità toscana. Poi lascia un attimo il figlio carnale, e va a prendermi una copia del suo figlio poetico, nato insieme a Stefano: la raccolta di versi e prose “Contromosse”, edita da Confine. Per chi non lo sapesse, Paolo Maccari è oggi uno dei migliori scrittori italiani, senza distinzioni di genere. La sua prosa critica elegante e severa (ha curato opere di Bacchelli, Campana, Gnoli) non sfigura davanti a quella del suo maestro Luigi Baldacci. Le sue poesie, invece, devono qualcosa al manierismo di Raboni e all’araldica luttuosa di Cattafi. Ma le allegorie naturali e belliche, suggerite fin dai titoli (il libro prima di “Contromosse” è “Fuoco amico”), ricordano soprattutto certi quadri composti, allucinati e atroci di Fortini. La guerra qui è metafora che serve a raccontare per contrasto la palude di una realtà quotidiana informe, in cui i fronti non sono chiari, e in cui si scivola subdolamente dall’intimità all’estraneità. La poesia di Paolo parla di situazioni dolorose ma senza gloria, di un’esistenza nella quale “l’incubo è abitabile”. E lo fa esibendo un nichilismo tutto “biologico”, che con la malafede della speranza rifiuta anche gli alibi e i risarcimenti ideologici delle teologie negative: “No, non saranno esaudite promesse/e preghiere invischiate con presagi/disperati, e non sono ammessi plagi//di altrui spensieratezze” dice un suo vecchio testo. “Contromosse” è un libro di apologhi e di orazioni sfigurate, di scene kafkian-hopperiane e di scorci narrativi dominati da un’insensatezza struggente, immedicabile. Per l’autore la vita somiglia a una oscena battaglia senza onore delle armi, dove non si vedono integre figure umane di amici e avversari, ma affiorano solo arti scomposti, dettagli di un mondo esteriore e interiore percepito come una scenografia falsa, miserabile, ma senza scampo: “Prima una recita il mondo e le genti sul palco./Ora sul marciapiede di fronte/all’uscita colorata osservo/come un cane affamato/che attende pietosi avanzi/l’amoroso scontrarsi di omeri aguzzi (…) E non c’è addio, non c’è morte che redima./La resa è una tana, il riposo un recesso./Deposte le armi, deposte ancor prima/le emozioni del combattimento,/non so a chi consegnarmi”. Ma oggi il nichilismo biologico maccariano è trionfalmente contraddetto dal piccolo sazio buddha che il poeta e Veronica si palleggiano tra il divano e il tavolo. Dopo pranzo andiamo a sederci in un chiosco sull’Arno insieme ad Alex Caselli, altro giovane e notevole poeta, che è un po’ l’editore di “Contromosse”, e che è venuto con me da Bologna. Anche Alex sta per diventare padre: e ora lui e Paolo, con un tecnicismo che mi intimidisce, si mettono a discutere del raggio visuale dei neonati e del grado di morbidezza delle ossa craniche, dei massaggi insegnati nei corsi preparto e della resistenza in sala parto, delle ideologie dei pediatri e dell’inarrivabilità dei Pampers, della poppata libera e della poppata a tempo. Poi si voltano verso di me: “e tu, quando ti decidi?” chiedono. Allora mi torna in mente che poco tempo fa una donna, con ben altra autorità e altro interesse, mi ha posto la stessa domanda con le stesse parole. A vent’anni l’avrei accolta con disponibile spensieratezza, a trenta mi ha fatto correre un brivido per la schiena. Rido, abbozzo, soppeso la mia copia di “Contromosse”, e cerco di riportare il discorso sul figlio poetico di Paolo: il suo nichilismo improvvisamente mi rassicura.

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A Bologna, certe periferie nate al tempo delle gloriose giunte dozziane e postdozziane fanno pensare che per un certo periodo qui si sia realizzato forse il solo socialismo possibile: quello urbanistico. Le oblunghe piazzette lunari e i giochi di sottopassi, i treni bassi di case popolari e le chiese-astronavi di Vaccaro, i casotti dei centri sociali, i palazzoni annegati nel verde e le corti coi colori e i portici che alludono umilmente a quelli della città vecchia, sono ciò che resta di concreto di un’utopia, o almeno di una tensione socializzatrice centrosinistrorsa e cattocomunista, oggi concretamente sepolta dai nuovi mostri edilizi fuoriporta e da un’attenzione tutta rivolta al centro, indifferente al pionieristico sforzo fatto un tempo per dare dignità ai quartieri. Il Villaggio Ina del Borgo e il rione Due Madonne, il Cavedone e alcune parti della Barca, diversi pezzi di Corticella e della zona fuori Lame, gli estremi tracciati residenziali del Savena, con la loro pacata atmosfera nordica, e i vasti parchi camposvenutiani del Fossolo, oggi riempiti come spiagge dagli immigrati che restano padroni di Bologna: tutti questi luoghi, embrioni di comunità a misura d’uomo e discreti argini all’alienazione suburbana, mi ricordano qua e là dei giganteschi asili o dei disegni di Richard Scarry. Chi li ha progettati nutriva ancora un sogno romantico: aveva davanti a sé l’immagine di un essere umano integro, di una perfetta sintesi di adulto e bambino, di pubblico e privato. Così rimugino, la mattina del 20 agosto, seduto al bar del Villaggio Ina, ultimo lembo nordovest di Bologna prima che il paesaggio si spalanchi su stradoni e motel, campi e ruderi colonici. Sono venuto qui di fronte, all’Ipercoop, a cambiare la montatura degli occhiali, perché per l’ennesima volta l’ho spaccata dormendoci sopra. Per un momento ho avuto la tentazione di prenderne una scarlatta, ma poi mi sono ricordato di una vecchia battuta di Gene Gnocchi (“scoperto l’ottico che ricatta Giampiero Mughini”) e ho optato di nuovo per il più sobrio nero. Accanto a me, al bar, c’è un gruppo di pensionati che discutono di Renzi. Il più anziano accartoccia nervosamente l’Unità. E’ un suo sostenitore molto recente, e il vicino di sedia lo sfotte: “t’an giv ch’l’ira un imbezél? L’avì sintò anca vo’, eh, fen a l’etar dé…” (“non dicevi che era un imbecille? L’avete sentito anche voi, eh, fino all’altro giorno…”). “Mo’ no, mo’ no… al parté, il partito adesso ha bisogno ed zuvan, di giovani…”. “Seee, seee… contrordine compagni”. A quanto pare, giorni fa Renzi ha spopolato alla festa democratica di Bosco Albergati, nella paludosa campagna tra Bologna e Modena. Non sono più solo i dirigenti del Pd bolognese, forse il più conformista d’Italia, a passare da un antirenzismo quasi razzistico a un renzismo spudorato, magari sottolineato perfino col look della camicia bianca. Il segno che il sindaco di Firenze ha cambiato le carte in tavola è la conquista degli storici militanti sempre in linea con le maggioranze interne, e delle brechtiane cuoche, che con eroica resistenza gregaria cuociono tortellini negli stand dai tempi del Migliore o dell’eurocomunismo. Il battibecco dei pensionati va avanti per un po’. Si cerca di stabilire se Renzi possa diventare un briciolo di sinistra, appena appena socialista. Un vecchio ordina una cedrata al barista cinese, e interroga anche lui sulla questione: “e te, Ciàn, sa dit, cosa dici te?”. Ma il cinese, che di socialismo qualcosa sa di certo, si limita a un sorriso agnostico. Presto le voci diventano urli; finché il renziano, che ormai ha fatto dell’Unità una palla di carta, prova a spostare la discussione sulle vacanze. Nessuno va via, restano in gruppo lì al Villaggio. “Mo par ander po a vadar cosa?”, “ma per andar poi a vedere cosa?”, dice uno. “Qui si sta d’un bene, in questi giorni c’è anche un po’ di vento”. E tutti, sorridenti sulle loro sedie allineate come in un Hopper incongruamente felice, si mettono a guardare con compiacimento il loro rione, dove sopravvivono le bacheche dei giornali “di partito” e dove spira ancora un’aria da ingenua Italia nazionalpopolare del boom. Renzi o non Renzi, forse la loro fetta di socialismo l’hanno già avuta.

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Dicevo che questo agosto è per me il mese dei bambini. Ma a quanto pare è anche il mese degli acciacchi. Fisici, e psichici: come si addice a un pubblicista saturnino, sedentario e somatizzante, che rifiuta di metter ordine nei suoi orari e nelle sue abitudini alimentari. Dopo l’otite, che resiste valorosamente agli antibiotici, da un passato che consideravo ormai lontano torna l’Attacco di Panico. E’ un attacco sontuoso, da manuale: come quelli inaugurali del ’96, cioè della stagione in cui i picchi d’ansia non si erano ancora assestati sulla linea piatta dell’ipocondria. Il mattino del 21 agosto sto guidando sulla circonvallazione, ed ecco che non respiro. Subito collego il fiato corto a strani sintomi dei giorni scorsi, e m’invento una diagnosi catastrofica. Arrivo a casa rischiando un frontale. Dovrei tentare degli esercizi di respirazione, dicono, ma non ci riesco. Di solito un buon calmante è Radio Radicale. Accendo, sperando che ci sia il comizio estivo di un partito minore: forse riuscirò a rilassarmi perdendomi in astruse analisi politiche. Invece c’è un concreto dibattito sulle infrastrutture, credo dalla concretissima Rimini. Bene lo stesso. Mi sdraio, chiudo gli occhi. E la calma arriva: ma è una calma triste. Non ascolto il dibattito: come tanti affezionati della radio, in questi giorni, penso a Dino Marafioti. Non l’ho mai incontrato, l’ho solo sentito due o tre volte per la registrazione della mia rubrica. Ma ho vissuto a lungo con la compagnia del suo importante lavoro. Accanto a quella nasale e concitata di Spagnoli e a quella affettuosa di Martini, a quella sorniona e cullante di Rufi e a quella classicamente radiofonica di Targia, a quella suadente di Carretta e a quella notturna di Rendi, a quella medianica di Aversa e a quelle sbarazzine di De Angelis e Caforio, a quella cristallina di Reanda e naturalmente a quella pastosa di Bordin, Marafioti proponeva una voce volitiva e insieme lievemente fragile, che non sorvolava gli argomenti ma dava l’impressione di avanzare alla loro altezza, a poco a poco, a volte con un filo di esitazione capace di impreziosirli. Presto spengo la radio, e provo a stordirmi con facebook. Leggo gli immancabili post qualunquisti sui temi del giorno e i delirii bovaristici, contemplo le foto kitsch di milf seguite da codazzi di ammiratori e mi fermo sulla Teledurruti di Abbate, che agita la sua zazzera aizzando gli amici contro i perbenisti di sinistra. Ecco, gli scrittori su fb. Di solito simili a se stessi. Raimo punta sull’aforisma e il siparietto comico, ma con un’ironia non disgiunta da certa sensibilità edificante. Vitiello è ottimamente woodyalleniano, ma non rinuncia a una generosa militanza radicale. Carraro sbraca come certi suoi personaggi. Paris riduce i fatti letterari ad aneddoti da salotto romano, con la svagata sciatteria che ritrovo ora nei versi del suo “Fumo bianco”: finte terzine dove tutto, la più corriva riflessione generazionale e il più improbabile erotismo latineggiante, è redento da un surrealismo non si sa quanto voluto, o meglio da un sottorealismo, da una carenza di realtà e pensiero che produce davvero effetti “fumisti”. A proposito di fumismo. Un amico mi rimprovera perché canzono gli epigoni di Celati. “C’è di peggio” dice. Sarà, ma appunto perché hanno l’equivoco appoggio dei letterati sono più pericolosi del “peggio”. Il loro bamboleggiamento con matti padani, “brache”, “scoregge” e “che” anacolutici mi sembra filisteo. Del resto, nulla di nuovo. Ho davanti una pagina di Savinio che parla dei “pargoleggiamenti” di Tofano, “futile, onomatopeico e pupazzesco”, paragonandone la compagnia a una famiglia di suoi conoscenti: “Benché forniti di nome e cognome, si facevano chiamare, lui Nane, lei Nana e il figlio Nanino. Praticavano quella forma di scemenza comune a tanta gente, che consiste nel deformare puerilmente i nomi e le parole (…)  riducevano a forma puerile tutti gli atti della vita, e davanti a quelli più gravi manifestavano un ebetismo sorridente, con che si persuadevano di essere tre tipi molto buffi. ‘Buffo’ era la meta suprema delle loro aspirazioni (…) Dichiaravano ‘barbosa’ qualunque forma di serietà e ‘riposante’ la scemenza. Parlavano (…) un linguaggio convenzionale, composto di monosillabi e onomatopee (…) imitavano gli atteggiamenti ‘buffi’ dei pupazzi (…) Davanti all’immoralismo e ai suoi rischi, si mantenevano prudenti come i visitatori del giardino zoologico davanti al recinto dei leoni; ma l’immoralismo costituendo appunto l’ideale delle loro animule borghesi, si erano foggiato di questo ‘ideale’ un succedaneo innocuo e incruento, equivalente delle sigarette denicotinizzate e del pane per diabetici”. Con maggior talento, il Tofano di Savinio sta a metà tra i celatiani e un’altra tribù pure molto diffusa a Bologna: quella degli esperti di leziosi libri per bambini, in realtà dedicati ai loro leziosi genitori. Sono tribù a cui temo non si possa chiedere di descrivere neanche un banale attacco di panico, senza che lo riducano per prudenza a un “buffo”, rassicurante fumetto.

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In questi giorni ho sperimentato due potenti antidoti all’ansia da attacco di panico, rivedendo due persone che hanno su di me un immediato effetto rilassante. La prima è Lucia, mia agopunturista e mio guru (Tiziano, il mio ospite cretese, sarebbe fiero di constatare che anch’io a volte sposo atteggiamenti olistici). Quante somatizzazioni si sono risolte nel suo palazzo dietro lo stadio! E’ una gioia ritrovare le sue stanze profumate di limone, le pareti crema coi quadri cinesi, e piegati in un angolo i plaid scozzesi che la dottoressa rimbocca sui pazienti nelle stagioni fredde. Lo studio è in un vecchio appartamento dalle luci soffuse, un po’ casa un po’ ambulatorio: come si addice all’altissima Lucia, che è un po’ medico e un po’ madre, e che mentre con due parole lascia intravedere l’impressionante talento diagnostico, non dimentica di mescolare la sua vasta dottrina occidentale e orientale ai rimedi più saggi dei contadini di Marzabotto in mezzo ai quali è cresciuta. Sentendomi i polsi e palpandomi pancia e schiena, indovina le cose che non ho saputo dirle a parole (non so parlare del mio corpo a un medico, non so scegliere tra i sintomi ciò che conta, e balbetto penosamente). A ogni constatazione associa un aneddoto, e lo racconta col sorriso più raggiante che io conosca. A volte mi basta pensarla da lontano per sentirmi meglio. Negli anni, sono venuto a sapere che anche per alcuni miei conoscenti sparsi per l’Emilia Lucia è un guru; e tutti sono terrorizzati dall’idea che possa andare in pensione. “Diamo una ripassata sabato” mi dice mentre esco piacevolmente stordito dagli aghi: e so che in questo intervallo sarà più facile star bene. L’altra persona che mi rilassa è il mio amico Maurizio Garuti. Lo raggiungo nella sua casa di Persiceto, luogo adatto alle convalescenze. Qui evitare il pittoresco è difficile: Persiceto, carnevalesca patria di Bertoldo, è davvero una Rimini felliniana senza il mare, coi suoi personaggi eccentrici che dominano la piazza. E’ un paese autarchico, e quando gestivo qui una libreria (c’è ancora, e ha mantenuto il nome di “Libreria degli orsi” in onore del mio aspetto) ho imparato che i suoi abitanti non si sentono una provincia di Bologna, e verso la città hanno l’atteggiamento di sufficienza di un ricco principato davanti a una nazione grande ma scialba. Anche in Maurizio, nato come Lucia negli anni ’40, il retroterra contadino si lega con armonia al suo mestiere, che è la scrittura; anzi, per dir meglio, la produzione artigianale di libri, dalla concezione poetica all’involucro grafico. Mentre descrive le sue giornate calme, abitudinarie e laboriose, il mio amico mi dà l’illusione che tutta l’ansia con cui passo le mie possa dissolversi in poche mosse. A differenza di me gestisce con ritmi perfetti il riposo e il lavoro, la solitudine casalinga e la condivisione dei fine settimana con la sua compagna. Maestro di moderazione, Maurizio guadagna con la scrittura in un modo pausato e placido che gli invidio. Oltre a comporre pezzi teatrali per Vito e Marescotti, scrive su commissione per gente che gli chiede di fare un libro sulla propria storia. Se la vicenda proposta è interessante, lui studia, intervista, raccoglie dati; poi li monta con una sobrietà narrativa degna di Enzensberger. Così ha messo insieme storie di dirigenti Pci e di ex compagni di scuola, di borgate cancellate dalle alluvioni e di azioni partigiane, e nel recente “Fratelli d’Emilia” ha descritto la metamorfosi di una famiglia contadina da fine ‘800 al boom. Quando in questa attività di sociologo della Bassa ne impara qualcuna troppo scabrosa per entrare in una semibiografia, la mette da parte per un romanzo. Col suo sorriso obliquo da mandarino e la sua allusiva erre moscia, sa raccontare bene anche a voce. Adora i dettagli di storia materiale; e di questa terra di mezzadri, di comunisti e di artigiani patiti di motori, parla con la passione di chi torna alle sue origini. E’ la stessa passione con cui, quando mi scarrozza per la campagna, nomina uno per uno gli uccelli che sfiorano i fari, e spiega perché in Emilia i passeri sono così diffidenti (anche lui, come i miei ospiti cretesi, mi educa alle scienze naturali: che aiutino davvero l’equilibrio psicofisico?). Maurizio di solito mi porta a mangiare alla Stella, un’ex casa colonica impermeabile ai restauri leziosi e illuminata da un orrendo neon, dove un’ostessa sola prepara un pasto familiare con salsiccia, pancetta, radicchio, pinza e moca. Ma ora la Stella è chiusa, così restiamo da lui e gustiamo la sua saporita minestra di fagioli. A cena, ascolta per un po’ i miei aggrovigliati referti esistenziali. Poi districa gli argomenti, e davanti ai miei dubbi teorici su certi racconti appena abbozzati mi invita a non intellettualizzare, a lasciarmi andare alla pura gioia del narrare. Poi passa alla mia vita sentimentale: e di nuovo mi ripete di non farmi troppi problemi, dandomi lezioni di saggio epicureismo. Sembra facile, finché bevo pignoletto rustico in questa comoda casa persicetana.

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L’arrivo autunnale dei cadaveri plastilinati di von Hagens, e quello invernale della “Ragazza con l’orecchino di perla”: di questo, senza far troppe distinzioni, parlano oggi i bolognesi quando parlano d’arte, elettrizzati dal potere che hanno gli eventi in quanto eventi, già impegnati ad avvolgerli in una preventiva nube di chiacchiere e a eleggerli a must sociali delle prossime stagioni. E le collezioni permanenti? Forse il Mambo, la galleria d’arte moderna, non se la cava male; anche se Morandi, ospitato lì in via provvisoria, fa sfigurare tutto ciò che c’è attorno, formalismi e informalismi, realismi guttusiani e concettualismi, arte povera e ultimi naturalisti: ossia poetiche che si agitano ancora, con un volontarismo un po’ megalomane, tra le materie e i simboli di quella modernità di cui le bottiglie del maestro di Grizzana – bottiglie che, diceva Mino Maccari, “mantengono le loro posizioni” – hanno descritto una volta per sempre la catastrofe, resistendo tragicamente coi loro pochi aridi tratti sul limite della dissolvenza. Se la cava malissimo, invece, la pinacoteca nazionale, che ha un patrimonio cento volte più importante, ma riduce drasticamente gli orari. Ha ragione Daverio, quando spiega che occorre ripensarne la struttura. Eppure, anche questa sgraziata disposizione da “ospedale di quadri” mantiene una sua attrattiva. E in ogni caso, l’overdose di prelibatezze estetiche fa dimenticare il resto. Ci torno, dopo mesi, nel pomeriggio del 22 agosto – la pinacoteca è un altro collaudato antidoto all’ansia – e la percorro insieme a qualche turista volenteroso. E’ un peccato che sia così poco nota, perché al di là dei capolavori (il danzante San Giorgio di Vitale e i carichi affreschi di Mezzaratta, la Vergine sinuosa del Parmigianino e il grosso San Sebastiano guercinesco, la ghiaccia Strage degli innocenti e l’intimissimo Ritratto della madre di Reni…), la solida medietà artigianale di molte sue opere offre un’impagabile panoramica didattica di storia degli stili. Soprattutto, qui si capisce bene la continua oscillazione delle arti bolognesi tra una vena fantastica o naturalistica, espressionistica o popolaresca, e una vena gelidamente classicista. Da una parte il bizzoso Vitale, il lombrosiano Aspertini, il verista Crespi; dall’altra il raffaellismo provinciale delle madonnine infilzate del Francia, i corpi traslucidi di Guido, le scenografie di Creti. E in mezzo, a mediare tra le due istanze, la lezione ecletticamente compromissoria dei Carracci. Che fare, per convincere i bolognesi a mettere piede qui dentro? Che ci voglia per forza il falso scintillio della Occasione Imperdibile? Torna in mente uno spassoso articolo di Manganelli, che negli anni ’70, satireggiando il turismo culturale concentrato sui soli effimeri “grandi eventi”, immaginava di pubblicizzare il Colosseo con l’avviso che sarebbe stato in mostra eccezionalmente per pochi mesi. Questa la ricetta: “Annunciare in tutto il mondo che c’è l’esposizione del Colosseo. Ci vuole un bel lancio. Spiegare che il Colosseo è stato predisposto per essere ‘esposto’”. C’era già prima e c’è comunque, direte. Ma “bisogna far capire che il Colosseo, in quanto oggetto esposto, è un’altra cosa. E poi, seccamente, annunciare: il Colosseo si inaugura il giorno tale. Far capire che la mostra resterà aperta diciamo tre mesi. Poi si chiuderà, irrevocabilmente. Chi ha visto il Colosseo esposto, bene, gli altri se lo faranno raccontare”. Ma forse, nel caso della pinacoteca, basterebbe che qualche editore o qualche insegnante autorevole e occhiuto rimettesse in circolazione la prolusione accademica del ’34 con cui Longhi inaugurò il suo magistero a Bologna, dove avrebbe influenzato Arcangeli e Pasolini, Bertolucci e Bassani. Nel saggio “Momenti della pittura bolognese”, lo stile materico e antiquario del sommo studioso è più che mai suadente. Longhi rifiuta di considerare i pittori petroniani dei barbari storpiatori delle grammatiche estetiche toscane, e ne rivaluta l’attitudine “sommamente icastica veristica asintattica”. Inizia a riscoprire quel Trecento locale che grazie a lui confluirà in pinacoteca, e in poche pagine propone un’acrobatica sintesi storica che va da Vitale agli scenografi del Sette-Ottocento. Ma questa sua battaglia critica, come si capisce vagando per le sale quasi deserte di via Belle Arti, dopo ottant’anni è tutt’altro che vinta.

*

Sabato 24 pranzo con Guido Armellini, che mi rilassa almeno quanto l’agopunturista Lucia e lo scrittore Garuti citati in una scorsa rubrica (come loro, è nato nei ’40: che non sia un caso?). Lo raggiungo alla sede bolognese dell’università popolare Primo Levi, di cui è direttore, e nella quale tengo qualche corso letterario. E’ bellissimo fare lezione a classi egemonizzate da agguerrite signore sui sessanta, che non modificano il loro sguardo di diligente attenzione neanche mentre leggo di un’orgia con cocaina in Walter Siti. Di solito in queste classi c’è un unico maschio, che invece s’interessa positivisticamente solo alla biografia degli autori e alla verosimiglianza della fiction (“ma quel negozio di Modena che cita, è poi aperto?”). Alla fine dell’ultimo corso, il maschio di turno mi ha preso sottobraccio e ha indicato le compagne strizzandomi l’occhio: “siam pochi, noi uomini, perché moriamo prima. Ma così son fortunato. Sa, faccio anche i corsi di yoga e di musica, per veder di trovare una bella vedova…”. E sull’immagine della “bella vedova” mi ha salutato, sventolando la sua copia di “Troppi paradisi”. Come sempre, e come pare avvenga nelle riunioni valdesi in cui il mio amico si trova così a suo agio, con Guido saltiamo rapidi da un argomento all’altro, parlando con uguale passione di romanzi e di teologia, degli alunni del suo fortunato corso gratuito di italiano, che porta con lo sconto in cineteca una volta al mese, e della famiglia della badante di suo padre, che ora vive con lui e non ha più bisogno di affittare una casa nei weekend per stare col marito e i figli. Ma oggi Guido ha soprattutto voglia di raccontarmi della sua vita. E mentre racconta, decido di colpo che devo essere il suo biografo. Sì, voglio riunire in un bel ritratto e far conoscere a un pubblico il più largo possibile le esperienze disparate ma mai dilettantesche (se non nel senso dei gran dilettanti alla Savinio) di questo intellettuale davvero raffinato e davvero engagé, ma singolarmente immune da narcisismi e populismi. Inizio a stendere un elenco. Guido è stato allievo di Arcangeli e precoce critico d’arte del Corriere, che ha lasciato quando un comune amico, il pittore Wolfango, gli ha rimproverato la contiguità all’odiato mondo dei galleristi. A trent’anni, via Manconi, ha pubblicato per Savelli un epocale libretto sulla canzone francese. Poi, con Adriano Colombo, s’è inventato un manuale zanichelliano di letteratura per le scuole, che con la sua cordiale limpidezza s’oppone al greve contenutismo della linea Salinari-Luperini, cioè ai didatti che schiacciano i testi sotto pedanti commenti, invitando implicitamente a evitare ogni rischiosa esperienza di lettura e a sostituirla con lo studio delle loro opinioni. E’ un manuale che nasce dalla concretezza dell’insegnamento: e il Guido insegnante ha un talento senza pari. Come Berardinelli, sa riassumere in forma aforisticamente perspicua, semplice ma mai semplicistica, le questioni culturali più intricate. Se ho iniziato a occuparmi di poesia, lo devo anche al fatto di esser stato ipnotizzato, nell’agosto del ’93, da un suo show in cui faceva giocare il pubblico di una chiassosa festa dell’Unità con le rime dei classici italiani (quindi i poeti che mi scrivono lettere minatorie per le mie stroncature se la prendano con lui). Con la didattica, l’altra grande passione armelliniana è la religione. Questo radicale ebreo piemontese, parente carnale e spirituale dei Foa e dei Garosci, ha attraversato il cattolicesimo conciliare nella Bologna dello scoutismo ribelle e delle messe dette in casa da don Catti; poi, esasperato dalla svolta wojtyliana, è diventato un dirigente e predicatore valdese (le sue prediche, limate con la moglie Elisabetta, gettano sulla Bibbia uno sguardo insieme coltissimo e miracolosamente “vergine”). Guido riesce a smentire i miei (fondati) pregiudizi: è passato per gli scout e per certo volontariato senza farsi contagiare dalla retorica corporativa, ed è uno dei pochi intellettuali in grado di descrivere il suo credo cristiano senza darmi l’impressione di una malafede oggettiva, di un tentativo di far quadrare tutto in una sofistica orgogliosa. Discutendo con lui, un mio possibile ritorno alla fede smette a volte di apparirmi come una tentazione diabolica. La sua religiosità, lontana dai fondamentalismi, lo è altrettanto da quel cristianesimo light alla Mancuso che finge irrilevanti i dogmi. Guido non smette di arrovellarsi sulle domande ultime; ma un antico, affettuoso e fiducioso umorismo lo allontana dai toni apocalittici, e gli permette di non rifiutare i sentimenti di aperta speranza. A fine pranzo il discorso cade su Fofi, altro amico comune, che in un recente incontro bolognese, mulinando savonarolianamente il suo bastone, elogiava la cruda prosa di qualche scrittore, la poetica antagonista di qualche artista, e invitava a disprezzare tutto ciò che è “consolatorio”. In quell’occasione, Guido lo ha apostrofato con umoristica dolcezza: “ma Goffredo, sei sicuro che la consolazione sia proprio una cosa così brutta?”.

*

Bologna si ripopola. In via San Felice, accanto alla trattoria Danio e ai bar cinesi che non hanno mai chiuso, riaprono le pasticcerie storiche, con le Sacher monoporzione già schierate a testuggine, e riaprono i caffè vintage che promettono centrifugati ultrameticci (ma quando sto per ordinarli, vedendo le facce contrariate delle bariste, mormoro timidamente: “un espresso”). In questi caffè, di me assai più audaci, ricompaiono anche le cinquantenni con le labbra a canotto e le chiavi di violino tatuate sul collo del piede ormai brunito, che bevuto il loro arancia-carota-mela vanno a fermarsi davanti alle inarrivabili scarpe della vetrina di Tassinari. Le fissano a lungo, quelle scarpe svettanti nel loro isolamento come arredi sacri su un altare: e i loro visi plastificati assumono a poco a poco un’espressione estatica da sante barocche, su cui prima o poi rifletterà certo in uno dei suoi bestseller il mio conciliante vicino di casa Vito Mancuso, senza dubbio riscontrando una spensierata, lodevole e beata affinità tra l’inclinazione al Bene e l’inclinazione al bene. Io, per conto mio, ho inaugurato l’ultima settimana di agosto riaprendo il file in cui confino le mie sempre più rare poesie, che forse, chissà, un giorno andranno a comporre una nuova raccolta. E sarà perché è stato un mese di frequenti cortocircuiti tra vita e scrittura, e di pensierini funerei sia pubblici che privati; sarà perché è stato un mese di nuovi farmaci e vecchi psicofarmaci, di apocalittiche elucubrazioni krausian-adorniane sul giornalismo e di ritornanti ansie, ipocondrie, stati emergenziali – ma mi è venuto spontaneo mettermi a restaurare due testi già stagionati dal tempo, eppure perfettamente rappresentativi di questi leitmotiv di mezza estate. Così ho pensato di consegnarli al diario, e di chiudere in versi la puntata di oggi. Eccoli, in successione, dal “privato” al “pubblico”:

MONOLOGHETTO

Nelle prove di morte vado male.

In altri tempi sarei stato un aborto:

per vivere non ho la resistenza

senza farmaci, per sopravvivere

senza coraggio sì.

Non ho pazienza, grido

pensando che qui e ora non ho steso

l’articolo del giorno

e a quello sono appeso

sempre ogni volta come ad un battesimo:

per me non è più vero

l’ieri, e il domani non ha immagine.

Oggi una zingara in strada mi ha toccato

il braccio, ha sfogliato due pagine, è sparita.

Trovarla, farle dire

il male sconosciuto inoculatomi

è impossibile: i messaggeri non chiedono risposta,

non dànno spiegazione,

e per definizione

segnano netti, ridono, svaniscono.

Presto per scrivere non avrò pazienza.

Tardi per vivere non avrò coscienza.

Perderò tutto e tutti crederanno

che io sia il tronco che di me rimane,

che non capisca ogni cifrato senso

delle frasette che sussurreranno

quando uguali verranno a visitarmi

in qualche casa pia, monumentale.

E io solo saprò la mia demenza

senza poter parlarmi.

Nelle prove di vita io andrò a male.

*

FATTI

Il Male è solo quello che va a male.

Ce n’è comunque, ovunque, in ogni caso.

Tutto è emergenza, sì, e tutto è ridicolo

se il cosmo è una questione personale.

Ci si ammala, si muore, il volto è abraso

da tempo, si moltiplica il pericolo

per i prossimi e il fato generale.

Storni l’occhio davanti al cane invaso

dalla rabbia, e lo citi in un articolo:

ti vendichi del Caso universale

sciogliendo nell’Universale il caso

singolo e muto, nella rete il vicolo,

fitte ipotassi in slogan per le scene,

in sinfonia lo strido delle pene

del toro di Falaride Tivù.

Prima non sai, poi sai, poi non sai più

la verità che ti stringe in catene:

che oggi il Male è il microfono del Bene.

*

Se dovessi indicare il mio più caro luogo di formazione, lo sfondo delle più sbrigliate fantasticherie infantili e adolescenziali, non avrei dubbi: la mia proletaria Combray, evocabile non con una madeleine ma con una costoletta, era disseminata lungo le feste dell’Unità – anzi, “de l’Unità” – che fino a metà anni Novanta riempivano l’estate di tutta la provincia bolognese. Lì ho imparato cos’è un bacio non materno; lì, pescando tra gli scaffali di “librerie” dall’assortimento quasi sempre eccentrico, ho iniziato a leggere poeti e filosofi (devo all’ecumenismo postideologico del Pds di Anzola la precoce conoscenza di Heidegger); lì, infine, ho lavorato per la prima volta, montando stand e servendo come cameriere. Dall’era prodiana in poi, alcune feste comunali sono sparite – come già negli anni Ottanta erano sparite le feste di cellula e di caseggiato – per riemergere a volte nella pallida forma della sagra, magari incoronata da bandiere arcobaleno. Ma quelle che hanno resistito sono divenute leggendarie. Spesso, anziché nei capoluoghi, si svolgono nei suggestivi scenari rurali delle frazioni, e puntano su un’inarrivabile specializzazione gastronomica, che insieme ai prezzi modici attira i molti bolognesi rimasti a casa e desiderosi di mangiar fuori senza affrontare ristoranti ogni anno più cari e mediocri. Così è la festa de l’Unità, oggi barbaramente ribattezzata festa democratica, che si apre negli ultimi weekend di luglio a San Giacomo, nella campagna nordovest di Bologna tra Persiceto e Anzola. Qui, dentro la “casella” contadina che domina gli stand, le cuoche si trovano per mesi a preparare i tortellini più piccoli e prelibati della provincia, che nonostante il caldo vengono di solito ordinati con un lesso altrettanto famoso. Un successo paragonabile a quello sangiacomino ha appena più a sud la festa della Borgata Città, un pugno di case dipinte a tratti naif e incassate in un’ansa del fiume Samoggia. Ci arrivo con mio padre in una stupenda sera di fine agosto, sotto un cielo carico sospeso tra dolcezza e minaccia. La Città era un tempo un rifugio di anarchici, e poi di comunisti duri. Poche decine di abitanti, che per la gran miseria divoravano tutti i gatti dei dintorni – a questa abitudine si riferisce il nome della locale società carnevalesca “I Mazzagatti” – e che insistevano cocciutamente a imparentarsi soltanto tra loro: se qualche ragazzo di fuori provava a “venire a morosa” in borgata, rischiava schiaffi. Alla festa della Città i piatti forti sono i quaderletti, i morbidissimi tortelloni al ragù e il somarello. A mangiarli arrivano ogni sera più o meno settecento persone, che condividono con allegra promiscuità i lunghi tavoli pigiati nella piazzetta davanti al bar Arci. Li serve una squadra di volontari che non avvertono certo la crisi generale della militanza: “ne vengono ogni volta di più”, dice Rosa, che governa il banco della zuppa inglese e delle pesche con l’alchermes, “sembra quasi un ufficio di collocamento”. Subito oltre le tavolate, tra l’argine e i cortili dove le famiglie indigene portano seggiole davanti alle tende per far “trebbo” (ossia chiacchiere), hanno montato un teatro di burattini, e un palco per l’immancabile orchestra che alterna “Quel mazzolin di fiori” alla Berté. Tutto sembra perfetto, alla Città: perfino le maglie rosse con citazione berlingueriana non danno la nausea. Occasioni come queste – e non certo la festona di Bologna, sempre più simile a un anonimo centro commerciale – sono forse le uniche in cui a qualche dubbioso e deluso elettore di sinistra potrebbe venir voglia d’iscriversi al partito di Renzi e Bersani, di Letta e D’Alema. Dopo cena, mio padre va a salutare a uno a uno i militanti. Io lo imito appena, con cenni imbarazzati: è gente che non incontro da anni. Ci rivediamo invecchiati: e mi chiedo cosa pensino di me, della mia sparizione dal loro mondo. Tutta la mia verve polemica contro il Pd, garantita dal fatto che nella mia giornata lo percepisco solo via mass media e sotto la forma dei suoi grotteschi dibattiti politicisti, qui entra sentimentalmente in crisi. Provo addirittura un po’ di rimorso, ecco, a non aver più il vassoio in mano: dato l’esempio genitoriale, so bene che per servire, ossia per restare ben saldi e attivi a ogni cambio di nome e d’indirizzo tattico o programmatico, non occorre nessun trinariciutismo, e nemmeno un’ascesi walseriana, ma solo un’ammirevole dose di fatalistica pazienza, e forse una saggia coscienza del meno peggio. Per attenuare un po’ il rimorso salgo sull’argine, che offre un raro panorama della Bassa. Da un lato e dall’altro ci sono le mie modeste parti di Méséglise e di Guermantes: a sud l’Anzola della mia infanzia, a nord la Persiceto su cui ho tanto fantasticato prima di conoscerne la piccola società autarchica in veste di libraio, il mio secondo lavoro dopo il cameriere.

*

Giovedì, verso le nove, mi sveglio da un buffo sogno in cui ero Scalfari: compitavo un lungo, stentoreo editoriale dove ammonivo gli addetti ai lavori sulla decadenza dei tortelloni, e in coda ricordavo sussiegosamente la ricetta giusta. Devo aver esagerato, con le feste democratiche. Guardo il calendario: 29 agosto. Sarà meglio rimettersi al lavoro. Oggi ricomincio a prendere appunti per il capitolo sui saggisti italiani del Novecento che devo consegnare al temerario curatore di un manuale scolastico. Dopo essermi dedicato a Salvemini, Cecchi e Savinio, faccio un altro salto di un decennio, e arrivo alla generazione nata col secolo breve. Allungo una mano sullo scaffale più alto, e tiro giù svogliatamente i libri di Carlo Levi. Li sfoglio un po’, li soppeso: no, mi sa che in casa, con Levi, non combino niente. Li metto in una sacca, cammino fino a Santo Stefano, e salgo a cavalcioni del muretto di fronte alla Corte Isolani. Ecco, così va meglio. Ci vuole almeno lo sfondo della piazzetta più bella d’Italia (che resta tale anche quando da via Gerusalemme spunta il testone quadrato di Prodi, d’altronde in perfetta armonia col romanico delle sette chiese), ci vuole almeno questo sfondo per riconciliarmi con Eboli e tutto il resto. La verità è che fatico a sopportare il modo in cui Levi semplifica miticamente le cose. Ancora meno sopporto il modo in cui descrive se stesso: che sfili condiscendente in mezzo ai cafoni lucani, o che fumi placido quando intorno a lui i compagni se la fanno sotto nelle strade del dopoguerra assaltate dai banditi, il medico-pittore-scrittore non smette un attimo di apparire olimpico, giovesco, sapientemente a suo agio nel mondo. D’altra parte, bisogna riconoscere che pure qualche suo amico lo ritrae così: come Soldati, che lo ricorda mentre fa aspettare la polizia fascista venuta ad arrestarlo, soltanto per disegnare con tranquilla sicurezza la copertina di “America primo amore” (una copertina assai migliore dei suoi quadri, davanti ai quali il freddurista Maccari agitava il frustino esortando: “Levi! Levi! Levi!”). Ma forse nella pittoresca oratoria di questo intellettuale versatile e talentuoso, e soprattutto nel suo narcisismo estetizzante, c’è anche un tratto generazionale che riguarda gli scrittori cresciuti dentro la reazione alle avanguardie moderniste, tra Solaria e le suggestioni proustiane, tra la prosa d’arte e le poetiche ‘900. Se si confrontano il “Cristo” e “L’orologio” del nostro torinese perbene coi coevi “Kaputt” e “La pelle” dello spregiudicato toscanaccio Malaparte, si noterà subito un’aria di famiglia: stessa estetizzazione dei drammi sociali, stessa riduzione al pittoresco di un malinconico umanesimo, e stesso Io insieme romanzesco e autobiografico, imperturbabile e sentenzioso, elitario e compassionevolmente populista. Questo Io, non a caso, ha molte affinità anche con quello che dilaga nei romanzi del quasi coetaneo Soldati, per cui Cases parlava di ingannevole “onnipotenza del soggetto”: con una sottigliezza che si rovescia di continuo in spudoratezza, nell’autore delle “Lettere da Capri” la prima persona si appropria i privilegi del narratore impersonale, sottraendo consistenza alla realtà circostante, e divenendo così “più importante della storia narrata”. Insomma: a volte, leggendo questi scrittori, torna in mente la battuta pronunciata da Monicelli davanti alle creature cinematografiche di Moretti: “togliti Nanni, che voglio vedere il film!”. Ma il ritratto migliore del Levi “divino” lo trovo in una poesia di Gatto: “Non crede d’esser vero/stupisce di mostrarlo/levandosi da Levi/sporgendosi da Carlo/per cogliere l’intero/ritratto del suo gaudio./Per grazia si concede/di vivere nei brevi/ritorni nel caffè./Entrando esce da sé,/uscendo entra col piede/eccentrico dei saggi./Ha scelto dall’armadio/il sigaro, le sciarpe,/i riccioli, i suoi raggi,/le gemme sulle scarpe./E splende come suole/risplendere chi scalda/i poveri a parole./E sorridendo fuma,/s’allarga nella falda/di gloria che gli spiuma/sul capo il visibilio/dell’anima e del sole.//Fu colpa dell’esilio/il merito che un giorno/gli valse la crociata/da Eboli a Grassano./Si ritrovò, dottore,/la penna nella mano, assente Cristo fece/la parte del Signore”. Dopo aver letto un centinaio di pagine dei maggiori libri leviani, scendo dal muretto e torno verso la mia via San Felice. A un certo punto, sotto le torri, mi vedo in una vetrina: e mi accorgo che sto camminando a testa insolitamente alta, a petto in fuori, con un sorriso di tronfia soddisfazione sulle labbra. Effetto della lettura di Levi, o postumi del sogno scalfariano? Certo non posso andare in giro così, sono ridicolo. Corro a casa, e torno a rifornirmi dallo scaffale alto: come antidoto all’autocompiacimento contagioso del Carlo, niente di meglio dell’altro Levi torinese, il Primo. Apro i volumi Einaudi delle sue “Opere”, e mi metto a correggere l’articolo sull’autore di “Se questo è un uomo” che da ormai troppo tempo ho promesso a Peppino Sottile.

*

“Il punto fermo”, 1 e 2. Il 30 agosto mi rimetto in pari con l’attualità del dibattito politico-culturale italiano, recuperando i giornali dell’ultima settimana che ho un po’ trascurato, e subito m’imbatto nel complesso di superiorità di Asor Rosa. In realtà lo stagionato polemista, che scrive sempre con la perentorietà di chi dà ordini durante un golpe, proprio fermo non è. Come il suo cognome, anche la sua storia è palindroma. Le sue posizioni si rovesciano a specchio. Due cose il giovane Asor disprezzava più di tutte, la letteratura populista e il terzaforzismo: ma il vecchio Rosa introduce il Meridiano di Scalfari, ed esalta delle liricheggianti risciacquature pratoliniane. Però in effetti un tratto è rimasto costante: il suo sogno di legarsi a un’aristocrazia, poco importa che sia quella di una “nuova razza” operaia, dei letterati grandi borghesi o dei moralisti di successo un tempo odiati. E’ un sogno di cui, avvisa Bordin, il palindromo porta addosso perfino un segno fisico: l’anello. Basta, lascio la malattia del “Punto fermo” alle cure di Pugiotto e Manconi, e dal Manifesto torno al Foglio. Nel numero del 28, leggo il pezzo di Tim Parks su Joyce. Sono felice di trovare qui la sua firma, e ripenso a un’indimenticabile serata trascorsa con la compagnia del suo cinismo. A chi non conoscesse questo antropologo del nord-est italiano, questo Severgnini non edificante che molto ha imparato dalla Ginzburg, consiglio di leggere un suo vecchio romanzo, “Cara Massimina”: dove si vede che Parks è prima di tutto un degno erede della Highsmith. Tornando alla politica, noto che nei retroscena sui falchi Pdl, accanto alla Santanché, spicca Capezzone. Non lo vedo da dieci anni, e nonostante tutto mi sorprendo spesso a pensare che vorrei parlarci, capire cosa pensa e – come direbbe Guzzanti – “dove sta andando su questa tera”. La sua brillante secchionaggine, che lo induce a trarre subito da un’idea le estreme conseguenze in modo intellettualisticamente esaltato, lo rende un bersaglio così facile che mi viene da difenderlo. Lo ricordo ai comitati radicali, chiuso nelle sue giacche troppo lunghe, impegnato a schivare le manifestazioni fisiche di affetto, tutto concentrato sull’efficacia retorico-estetica delle proprie analisi. Per un po’ le sue ampie, rotonde relazioni “in bella”, animate da un’intelligenza sempre fallicamente eretta anche nei minimi dettagli della consecutio temporum, riuscirono a convincere perfino i pannelliani più sinistrorsi che i neocon non erano poi così male. Ricordo la sua pignoleria maniaca, i suoi insistiti “davvero” (tic linguistico volto a correggere l’artificiosità oratoria), e ricordo anche certe reazioni sinistre davanti alle opposizioni interne (in un congresso, col suo tono serioso e contrito, a Dell’Alba si rivolse più o meno così: “forse ti sei caricato di troppo lavoro, lo dico davvero per te Gianfranco, forse è ora che tu ti prenda un po’ di riposo…”: e non mi avrebbe sorpreso sentire in sottofondo la sirena di un’ambulanza cremlinesca). Daniele sa essere aforisticamente ironico e sarcastico (mai umoristico); ma questa ironia è neutralizzata dalla diligenza atrocemente tomistica dell’eloquio, che fa un buffo effetto alla corte anarcoide del Cav. Dice cose libertarie, ma in forme puntigliosamente precettistiche (i suoi nemici chioserebbero: gesuitiche). Farebbe pensare a certi inquietanti ragazzi gidiani, o a quelli della sartriana “Infanzia di un capo” e del kunderiano “La vita è altrove” (tutti tipi che hanno un bel problema coi genitori), se la sua voce cocciuta e petulante non rimandasse a più domestici personaggi nannimorettiani (in effetti, a prescindere dai contenuti, Daniele parla un po’ come un essere risultante dalla fusione di Moretti e Sgarbi). Ho l’impressione che sia troppo poco incline alla promiscuità per fare il politico, e troppo introvertito per fare il polemista da show: forse deve ancora trovare la sua strada, magari diventerà un grande pamphlettista… Chiusi i giornali, vado in piazza Maggiore a incontrare Andrea e Daria, due giovani e fini letterati. Andrea si occupa di umanisti, Daria di ‘900 italiano e tedesco. Per un po’ parliamo di concorsi universitari, di Tfa, di dottorati e assegni: discorsi che mi mettono addirittura più ansia di quelli sulla paternità. Poi discutiamo dell’invito che ha fatto a tutti e tre il dirigente di una prestigiosa casa editrice. Ci chiede di proporre dei saggi. Solo che bisogna trovare tagli non specialistici, tematici, accattivanti. “Come me li rivendo, i miei dotti minori del ‘400?” dice Andrea. “Forse dovresti travestirti da microstorico, sai con quei titoli tipo ‘Sudori, alitosi e flatulenze nell’umanesimo bolognese’…”. Daria invece ha pronto un ritratto di D’Arrigo: “ma chi lo legge? Devo puntare sui grandi animali metaforici o sull’esotismo siculo? E tu Matteo?”. “Io? Io non vedo perché non si possa intitolare un libro ‘Saggi critici’, come ai bei tempi vociani… ma chi lo dice che devo per forza trovare un titolo tipo ‘Viscere virtuali. La letteratura al tempo di Al-Qaeda e di Facebook’?”. Ci salutiamo perplessi. Poi torno a casa, e mi metto a scrivere questo pezzo. Ecco, sono arrivato alla fine del diario agostano. Ma ancora una riga, per ringraziare quattro lettrici particolarmente generose con “Estate in città”: Mariolina Bertini, Chiara Maffioletti, Daniela Ranieri e Sara Tescione.

Written by Guido

settembre 21, 2013 a 4:24 PM

Pubblicato su Il Foglio, Matteo Marchesini

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