Un’impresa dannunziana per riformare la giustizia
Immagino che un volume di duecentocinquanta pagine in testa debba far molto male, specie se lanciato da mille metri d’altezza. Pazienza, dovrò accantonare la tentazione dannunziana di salire su un biplano e bombardare le città d’Italia con migliaia di copie del nuovo libro di Giuseppe Di Federico e Michele Sapignoli, I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia, appena pubblicato da Cedam. È una ricerca sullo stato di salute del processo (possiamo anticipare: comatoso) condotta attraverso le testimonianze di oltre mille avvocati penalisti; ed è anche un’analisi delle ragioni che hanno reso, rendono e forse renderanno vana ogni velleità di riformare la giustizia. Perché tentare un bis della trasvolata su Vienna? Perché i pochi libri importanti sulla giustizia di solito vanno incontro a un destino di semiclandestinità; perché i grandi editori preferiscono non aver rogne; perché questioni che riguardano la vita e la libertà di tutti si annidano spesso in dettagli tecnici che allontanano i profani, ed è più facile scuotere gli animi sventolando le toghe rosse e i calzini turchesi; infine, perché sulla giustizia è in atto da decenni un colossale tradimento dei chierici, dove non si sa bene se la cosa più deprimente sia il tradimento o la forma mentis da chierici. Ma veniamo al libro.
Gli avvocati che hanno risposto al questionario su cui si fonda la ricerca concordano nel constatare il naufragio del nuovo codice del 1988, dirottato da una tenace mentalità inquisitoria. Buona parte del fallimento si deve all’abnorme concentrazione di poteri che è venuta ad accumularsi nelle mani dei pubblici ministeri, e alla discrezionalità quasi illimitata di cui godono fin dall’avvio delle indagini. Basta scorrere i titoli di alcuni paragrafi per capire in quali condizioni si esercita oggi il diritto di difesa (Assenza di controlli sull’attività investigativa del Pm; Prolungamento illegittimo delle indagini preliminari; Omissione delle prove a discarico; Pressioni indebite sui testimoni; Intercettazioni dei colloqui tra avvocato e cliente; Comportamenti del giudice che favoriscono l’accusa). Problemi non nuovi – erano emersi in ricerche simili svolte da Di Federico a partire dal 1992 – ma ormai incancreniti.
E però, le ragioni per cui il libro andrebbe catapultato con grande strepito nel dibattito pubblico risiedono nel quinto capitolo, nel quale Di Federico prende in esame i due grandi ostacoli sulla via della riforma (il terzo, l’inerzia della politica, è tutto sommato il più innocuo). Primo, un assetto istituzionale che “consente alla corporazione dei magistrati di monitorare e controllare il processo legislativo in materia di giustizia lungo tutto il suo iter, comprese le verifiche di costituzionalità”, grazie alle “posizioni che essi occupano presso il Ministero della giustizia, presso il Csm ed in molti altri gangli decisionali dell’apparato statale, inclusa la Corte costituzionale”. Ogni tentativo di riforma è una corsa con l’uovo nel cucchiaio: puoi anche partire bene, il difficile è farlo arrivare intatto al traguardo. La cosa più sconcertante è che la presenza dei magistrati al ministero è teorizzata – anche in documenti ufficiali, e con una certa sfacciataggine – come baluardo di resistenza contro eventuali attacchi all’indipendenza (o agli interessi) della corporazione. L’altro ostacolo sono gli enormi poteri di contrattazione e di deterrenza di cui gode la magistratura rispetto alla classe politica, e non basta certo ripristinare l’immunità parlamentare vecchia maniera per aggirarlo. Bisogna aggredire la radice prima del potere contrattuale, e cioè quell’obbligatorietà dell’azione penale che come diceva Falcone (di cui Di Federico è stato stretto collaboratore) è circondata da una “visione feticistica”.
Ogni aspirante riformatore farebbe bene a mandare a memoria questo libro, se non altro per darsi contezza delle forze in campo. Della trasvolata non se ne fa nulla, pazienza, ma se mi autorizzate mi offro personalmente di darlo in testa a Renzi, a Berlusconi e ad altre selezionate zucche.
Articolo uscito sul Foglio il 2 agosto 2014 con il titolo Processo al processo
“Assenza di controlli sull’attività investigativa del Pm; Prolungamento illegittimo delle indagini preliminari; Omissione delle prove a discarico; Pressioni indebite sui testimoni; Intercettazioni dei colloqui tra avvocato e cliente; Comportamenti del giudice che favoriscono l’accusa” sono tutte patologie (e/o reati processuali) che non si capisce perchè sarebbero evitate/i dall’eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
L’unica cosa che verrebbe verosimilmente eliminata è l’obbligo di cercare e produrre le prove a discarico, per dire il garantismo.
david
agosto 26, 2014 at 8:59 am
perchè l’obbligatorietà dell’azione penale è la foglia di fico dietro la quale si nasconde la malafede di molti magistrati
gotico americano
agosto 31, 2014 at 9:11 am
quindi per sanzionare un (presunto) delinquente rinuncio a un principio democratico, complimentoni al garantismo
david
settembre 1, 2014 at 9:02 am
se anche fosse (e così non è), rinunciare a un principio di civiltà giuridica per perseguire comportamenti in malafade non è esattamente garantista (ma ovviamente Lei non si considera garantista, giusto ?)
david
settembre 3, 2014 at 3:32 PM