Pannella e la morte
Il Cavaliere di Dürer, catafratto nella sua armatura, non degna di uno sguardo la Morte che gli agita sotto il naso una clessidra, e anche per questo contegno di sprezzo eroico se ne incapricciarono i nazisti. All’incisione s’ispirò Hubert Lanzinger per quel capolavoro di comicità involontaria che è il Bannerträger, il celebre ritratto di Adolf Hitler a cavallo con in pugno la bandiera della svastica, dove il Führer sembra l’Uomo di latta del Mago di Oz a cui un gigantesco apriscatole abbia fatto saltare il coperchio. Correndo con gli occhi dall’allegoria di Dürer alla patacca di Lanzinger si vede bene come i fascismi europei abbiano pervertito l’antico ethos delle aristocrazie guerriere, che prescriveva l’indifferenza a cospetto della morte, contaminandolo con un cupo, morboso desiderio di estinzione. Fu Miguel de Unamuno, nel 1936, a trovare per questo desiderio il nome giusto. Quando sentì risuonare all’Università di Salamanca il grido di guerra della Legione spagnola – “Viva la muerte!” – non poté trattenere l’irritazione e diede ai falangisti dei necrofili. È un episodio che ho sentito raccontare per la prima volta da Marco Pannella, e che mi torna alla memoria mentre osservo, pieno di ammirazione e di apprensione, la sprezzatura cavalleresca con cui il più nobile dei politici italiani ha accolto la scoperta dei suoi due tumori, fumando imperterrito i suoi sessanta sigari quotidiani e digiunando per i carcerati.
La necrofilia come segreto di tutti i fascismi è bersaglio ricorrente di Pannella, che ne ha combattuto di volta in volta le metamorfosi – dalla sinistra “grande solo nei funerali” all’ossessione grillina per gli zombie. Chissà se di tutto questo ha mai discusso con Denis de Rougemont quando lo andava a visitare a Ginevra – me ne parlò un pomeriggio, in una trattoria a via di Torre Argentina, davanti a quello che poteva essere un chilo di scamorza e a una grappa con dentro qualche chicco di caffè. De Rougemont aveva colto meglio di chiunque altro, in L’Amour et l’Occident e nel Journal d’Allemagne, la filiazione tra il desiderio estatico di morte celebrato da Wagner nel Tristano e Isotta e le fiaccolate notturne dei nazisti. È sullo sfondo di questa mistica necrofila che Pannella ha delineato per contrasto la sua visione delle cose, anche se negli anni c’è chi ha visto nei suoi digiuni una forma di cupio dissolvi o ha perfino scambiato per la cappa mortifera di Nosferatu il loden blu con cui si presentò a un vecchio congresso del Pci. Eppure, il rapporto di Pannella con la morte resta per me un aspetto misterioso, di cui per riserbo tacerei se non ne avesse fatto lui stesso un tema politico (la manifestazione più plateale, quasi surrealista per chi non conosce i radicali, è stata la conferenza stampa con il feretro di Stanzani).
Quarant’anni fa Pannella descrisse l’“autostrada di nicotina e catrame” su cui viaggiava “quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene”. In tempi più vicini ripescò il motto oraziano caro al nostro Risorgimento e cominciò a ripetere che in Italia era giunta l’ora in cui sarebbe stato “dolce morire per la patria”. Me ne stupii, tanto da chiedermi se la sua lotta alle ideologie necrofile, la sua celebrazione inesausta di Eros contro Thanatos, non fosse anche un esorcismo, un modo per allontanare da sé un richiamo molto intimo, che emerge fatalmente quando si mette in un’impresa tutta la propria vita, dunque anche la propria morte. Il pensiero fa ancora più nobile ai miei occhi l’ironica e generosa indifferenza alla morte di questo mite cavaliere errante.
“Viva la muerte!”, gridava Millán Astray, fondatore della Legione spagnola e mutilato di guerra. Unamuno gli ricordò che anche Cervantes a Lepanto aveva perso l’uso di una mano, ma che l’autore del Chisciotte non coltivava il desiderio macabro di moltiplicare i mutilati attorno a sé. Lo stesso si può dire di Pannella, forse il solo politico che Cervantes avrebbe potuto sognare.
Articolo uscito sul Foglio il 9 agosto 2014
Tra l’altro questo approccio di indifferenza alla morte tipicamente aristocratico/cavalleresco non è cosa medievale, o meglio non solo. Mi vengono per esempio in mente le dinamiche che portarono alla morte del principe Francesco Ferdinando, nel 1914.
Dan Marinos
settembre 1, 2014 at 2:43 PM
Collegandomi anche al suo articolo scritto su Internazionale relativo alla dichiarazione di Emma Bonino vorrei affermare due cose: la prima riguarda il quasi assoluto accordo che provo nei confronti dei suoi scritti; la seconda è relativa al motivo per cui Pannella e Bonino, come moltissimi altri radicali, danno “corpo” alla loro attività e battaglia politica. E’ molto semplice: primo perché sono radicali che vuol dire (come affermò Pasolini) “essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.”; secondo perché seguono i principi del Satyagraha (ricerca insistente della verità) non violento gandhiano; infine perché sono costantemente e continuamente ignorati dai media e dal palazzo. Tutto ciò spiega il motivo del lottare per un paese che diventi liberale e che incarni il principio dello stato di diritto. In questo l’Italia è rovinata e se la nostra politica dovesse perdere i radicali resterebbe davvero con pochissime speranze.
Andrea Aversa (@AndreaAversa)
gennaio 15, 2015 at 2:19 am