Guido Vitiello

Cavalieri inesistenti (La Controra, 3)

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Schermata 2015-07-05 a 12.57.16Chi vive in una perenne controra, voltando le spalle al sole dell’attualità, può aver l’aria distratta o perfino imbronciata; ma quel che perde in senso del presente lo guadagna in chiaroveggenza retrospettiva. Torno a sfogliare, vent’anni dopo, il famoso Venerdì di Repubblica che aveva in copertina il giudice Borrelli a cavallo. Era l’ottobre del 1993, e il sole di Mani Pulite era allo zenit. Il procuratore capo ritratto in tenuta da cavallerizzo, la maglia verde, i guanti bianchi, una coppola di tweed marrone messa appena di sghimbescio, non poteva che attirarsi le ironie di chiunque avesse ancora una goccia di senno, per il resto largamente migrato sulla Luna. Mauro Mellini, per l’occasione, parafrasò il Curzio Malaparte della Ballata dell’Arcimussolini, intonando: “Spunta il sole e canta il gallo, o Borrelli monta a cavallo”. Sotto il sortilegio dell’ora, chissà, avrei potuto anch’io satireggiare, non su Malaparte ma su Bonaparte, e sullo Spirito del mondo a cavallo che Hegel allucinò a Jena. Ma a rivederlo col senno della controra, quel giudice in sella aveva ben poco di napoleonico, e quel cavallo baio con una stella bianca sulla fronte non aveva un bel nulla di Marengo. Povero giudice, e povero anche il cavallo: due musi lunghi che fissavano a terra. E chi poteva pensare al Napoleone del quadro di David, che tiene alla briglia il destriero rampante indicando il cielo? Piuttosto, il procuratore dalla trista figura su un ronzinante più triste di lui aveva qualcosa di donchisciottesco, e neppure del Quixote ispido e filiforme di Picasso, no, poteva ricordare uno di quei cavalieri illanguiditi, quasi deformati dalla luce serale di Daumier. Ma è un’altra, la formula che meglio illumina quella fotografia: il cavaliere inesistente.

L’ho trovata in coda a un libro dello storico del diritto Michele Luminati, Priester der Themis (Klostermann, 2007), dedicato all’immagine di sé che i magistrati hanno coltivato dopo il 1945: “Parafrasando la celebre trilogia di Italo Calvino, si potrebbe dire che il magistrato italiano da barone rampante, che vive in totale isolamento dal mondo circostante, si è trasformato poi in visconte dimezzato, composto da due metà in conflitto, e ora in cavaliere inesistente che è fatto solo di armatura, spirito guerriero e senso del dovere”. Illudersi che Mani Pulite fosse opera di visconti dimezzati, divisi tra la legge e la militanza politica, e non di cavalieri inesistenti, in cerca di un ruolo indefinibile ma ambiziosi fino alla temerarietà: ecco il grande abbaglio. “Com’è che fate a prestar servizio, se non ci siete?”, chiede Carlomagno al cavaliere: “Con la forza di volontà”, risponde Agilulfo, “e la fede nella nostra santa causa!”. È il dialogo su cui si appunta l’attenzione di Luminati, ma dal paragone letterario avrebbe potuto cavare molto di più, perché a rileggere liberamente Il cavaliere inesistente come allegoria giudiziaria si è ripagati. Agilulfo che ha la smania di controllar tutto, che ha fede solo nei verbali e nei registri, che passa in rassegna le negligenze degli altri cavalieri anche se non gli compete, e che pure non rischia nulla (“Visto che a lui la rogna certo non gli viene, non trova di meglio che grattare le rogne agli altri”). E soprattutto, Agilulfo che non può avere un corpo, cosa che gli provoca “un disagio somigliante all’invidia, ma anche una stretta che era d’orgoglio, di superiorità sdegnosa”.

Di questo parlava il ritratto equestre di Borrelli, del magistrato e del suo corpo. Il cavaliere in toga è preso in un dilemma: il suo potere così vasto gli deriva dal non aver volto, dal trincerarsi dietro le regole cavalleresche della legge e dell’obbligatorietà, dall’essere insomma una toga senza cavaliere dentro; ma i margini del suo arbitrio sono tali da farne che voglia o meno un eroe con lineamenti e fisionomia. Di qui la tensione tra il mostrarsi e il celarsi, tra l’alimentare e il fustigare le vanità, che ha diviso i magistrati in questi anni. Ne abbiamo lette di pagine sul “corpo del capo”, nessuna sul corpo del procuratore capo; ed è una storia iconografica che si dovrebbe scrivere, frugando nelle emeroteche e tra i vecchi ritagli, dal primo vagito di Raffaele Sepe, il giudice istruttore del caso Montesi che passò a un cronista la sua foto da bebé, a quel nitrito ben più fragoroso, su una copertina che pareva dire: ecco il mio corpo, ma il cavallo ed io guardiamo in basso, come fossimo qui nostro malgrado.

“Dico a voi, ehi, paladino!” insisté Carlomagno. “Com’è che non mostrate la faccia al vostro re?”.

23 luglio 2014

Written by Guido

luglio 5, 2015 a 1:00 PM

Pubblicato su Controra, Il Foglio

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