Orient express (La Controra, 4)
Uno dei profeti minori della controra è stato Riccardo Pazzaglia, umorista e gentiluomo anglonapoletano, membro cioè di quell’etnia signorile che Beniamino Placido, con una nota di condiscendenza antropologica a un passo dalla stonatura, volle distinguere dai più chiassosi turconapoletani. Alla controra Pazzaglia dedicò appena qualche cenno nel piccolo libro Odore di caffè (Guida), dove tentava di sbrogliare l’enigma di quel “contro” che non appare in nessun’altra delle denominazioni del riposo postprandiale. La sua definizione di controra seguiva la lectio più diffusa, che nel prefisso legge il segno di un’ostilità del clima agli sforzi umani. È l’“ora assolata contraria a ogni attività”, ma da questa costrizione Pazzaglia faceva discendere un precetto positivo, un embrione di filosofia, già che la controra “impone di adottare una pronta difesa passiva. Non si può far niente. Non si ‘deve’ far niente”.
Non biasimate il sole a picco e le sue ubriacature se in quella “pronta difesa passiva” vi pare di avvertire un’eco quasi taoista (“Pratica il Non-agire, bada a non fare niente”, insegna il Tao tê Ching). Pazzaglia si sforzò di vedere nella sprezzatura partenopea, in quella umoristica impenetrabilità alle disgrazie come alle fortune, una deviazione locale della Via taoista, uno dei tanti dialetti in cui si declina il principio dell’inazione, il wu wei. S’inventò un saggio sino-napoletano, il professor Cuozzo, detto “E Con Ciò” perché scandiva a ogni occasione di turbamento questa sua formula della “calma celeste”. E raccontò l’apologo di un imperatore cinese che convocò i sapienti della Terra perché comprimessero in un libro il più piccolo possibile i precetti necessari al distacco interiore; sembrava soddisfatto quand’ebbe ottenuto un volumetto del formato di una scatola di fiammiferi, ma dalla remota città di Napoli un viaggiatore gli portò un libricino ancora più minuto, neppure un’unghia di pollice, che racchiudeva una sola aurea massima: “Futtetenne”.
Le fonti delle divagazioni semiserie di Pazzaglia non erano solo cinesi, e nello stesso libro, Il brodo primordiale (Rizzoli), nato dal successo di “Quelli della notte”, guardava anche all’India e alle sue dottrine. Ma la parola definitiva sul tema la diede l’anno successivo, il 1986, nel film Separati in casa, con uno sketch di rivista dal titolo memorabile: “Me ne vado a fare il guru”. Qui Pazzaglia, esposta per sommi capi la filosofia dello Yoga ed enumerati i rigori ascetici – la castità, il vegetarianismo, il giaciglio scomodo – dopo lunghe esitazioni decideva che no, non era tempo di andare a fare il guru sebbene in molti ce lo mandassero, perché la filosofia indiana sarà pure sublime, ma il riso è assai meglio con la provola, il salame e le polpettine del “sartù” napoletano. Rivedendolo ho pensato – miraggi del sole a picco – a quel che lessi in un libro, Il mio Oriente (Adelphi), dove sono raccolte le pagine di Schopenhauer sulla religiosità orientale, in particolare indiana. Il curatore Giovanni Gurisatti rimarcava il disinteresse del filosofo verso la pratica della meditazione: “Il nirvana di Schopenhauer rimane un che di teoretico, speculativo, metafisico. Colpisce infatti l’assenza dal suo schema di riferimenti allo Yoga”. E poi: “Ma non v’era né gioia né salute né quiete in questo monaco. Le pagine che raccolgono le sue riflessioni più intime (…) ci consegnano la figura di un uomo melanconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino, sdegnosamente arroccato su se stesso, che fece dell’homo homini lupus, non del tat tvam asi, la legge della propria vita”.
Ora, non mi sogno di contrapporre Il brodo primordiale ai Parerga e Paralipomena; ma alla luce dello sketch del guru si lascia osservare con più chiarezza la posizione di un certo tipo di saggio occidentale volto a Oriente (Schopenhauer è il patriarca di una famiglia intellettuale numerosa), e si è spinti a chiedersi se essa non poggi su una menzogna essenziale. La predicazione dei “redentori teoretici” è sospettamente dilatoria. Parlano di rinunciare all’illusione dell’ego e agli altri attaccamenti, ma quando si tratta di metter mano all’aratro temporeggiano: meglio dedicarsi a scrivere un nuovo libro in cui, con dottrina accresciuta, illustreranno al gregge occidentale la superiorità della via ascetica. Ma se si ha l’ineleganza di frugare nelle loro vite, si vedrà facilmente che il viaggio in Oriente, da cui pure riportano tesori speculativi che poi ordinano e lustrano, serve ad ammobiliare le stanze di un ego dal quale non hanno nessuna intenzione di sloggiare, e a rinfocolare passioni banalotte – l’orgoglio spirituale, l’affermazione risentita della propria superiorità – in cui anche uno yogin principiante riconoscerebbe macigni sulla via della liberazione.
Questo insegna il Piccolo Iniziato anglonapoletano. Avrò letto decine di filosofi e saggisti eruditi che fustigano la mediocrità dei moderni a colpi di citazioni in sanscrito o in pali. Ce ne fosse uno che se n’è andato a fare il guru.
30 luglio 2014
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