Guido Vitiello

Sperate che siano innocenti

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TonyStasi
Bis, ter, quater in idem
: come processi perennemente ricelebrati, ci sono dilemmi tenaci che tornano di secolo in secolo. Commentando la vicenda Stasi, sul Foglio del 15 dicembre, l’ex magistrato Piero Tony ha scritto che dobbiamo mettere sotto accusa “il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e non i magistrati suoi celebranti”. Con regole migliori, se ne deduce, casi raccapriccianti come quello che ha portato alla condanna di un pluriassolto sarebbero impensabili. E sia; ma in un lampo di déjà-vu ho ripensato alle battute finali dell’ultimo intervento pubblico di Enzo Tortora, in collegamento telefonico dal suo letto d’ospedale con la trasmissione “Il testimone” di Giuliano Ferrara. Alessandro Criscuolo, presidente allora dell’Anm (e oggi della Corte Costituzionale), sosteneva che il caso Tortora era nato dalle scorie di un sistema processuale figlio di tempi bui e autoritari, che la radice delle storture era nel vecchio rito inquisitorio tutto sbilanciato sull’accusa, che l’imminente introduzione del nuovo codice avrebbe reso impossibile il ripetersi di una tragedia come quella (non si azzardava a chiamarlo errore). Cercava poi, in tono di curiale sollecitudine, di ottenere l’assenso di Tortora, che però trovò un filo di voce per rispondergli, o meglio per mettere la domanda a testa in giù: “Io credo che voi siate impegnati in una difesa corporativa”, disse. “Volevate difendere la vostra cattiva fede”. Dalle colpe del sistema eccoci riportati alle colpe degli uomini.

Poche settimane dopo Tortora morì, e volle con sé nella bara la Storia della Colonna infame, il libro dove il dilemma era posto nel più limpido dei modi. “Una cattiva istituzione non s’applica da sé”, scriveva Manzoni nelle prime pagine, discostandosi dalle tesi di Pietro Verri – ed è storia nota. Ma Tortora non scelse una copia qualunque del classico di Manzoni. Scelse l’edizione Sellerio del 1981 perché c’era una prefazione di Leonardo Sciascia, dove si leggeva: “Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali”. L’illustre prefatore di un’altra edizione, Franco Cordero, accusava Manzoni di aver allestito un teatrino consolante in cui gli attori optano tra Bene e Male fluttuando in un vuoto metafisico, senza tener conto delle abitudini, della cultura del tempo, in una parola del sistema.

Ma un dilemma tenace, attraversando i secoli, non trova solo nuovi attori e nuovi pretesti attorno a cui svolgersi, trova anche nuove scenografie. E a Piero Tony – che non ha certo scrupoli corporativi, lo dimostra il suo pamphlet Io non posso tacere – si potrebbe chiedere: ha senso riproporre la distinzione tra liturgia e celebranti, quando è proprio il sistema processuale a lasciare ai magistrati – dall’avvio delle indagini alla conclusione del giudizio – margini così spaventosi di discrezionalità e di arbitrio irresponsabile da magnificare, anziché comprimere, l’elemento soggettivo? Io non spero che Stasi sia colpevole, spero che siano innocenti gli uomini che l’hanno condannato. Ma anche questo, ora che ci penso, l’aveva già detto qualcuno. Bis in idem.

Articolo uscito sul Foglio il 18 dicembre 2015 con il titolo Non spero che Stasi sia colpevole, spero che sia innocente chi l’ha condannato

Written by Guido

dicembre 24, 2015 a 9:41 am

7 Risposte

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  1. Secondo me il caso Tortora è il perfetto esempio “a contrario” del fatto che dobbiamo mettere sotto accusa “il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e non i magistrati suoi celebranti”, infatti un magistrato scrupoloso avrebbe dovuto assolverlo in primo grado nello stesso modo in cui il giudice scrupoloso lo ha assolto in appello. Come avrebbe influito sul caso Tortora il “sistema processuale” non è dato capire (tantomeno dal post).
    Ma il caso Tortora viene ormai citato come un evento dai contorni mitologici da chiunque per sostenere la qualunque.

    david

    dicembre 30, 2015 at 4:36 PM

    • LA LEGGE DEL PIU’ FORTE – VENTUNO
      Maurizio Iori continua a pagare l’isolamento dai media, tre processi con elementi di gossip sociale e giudiziario, gossip a dir poco, e gli unici a scriverne in tutta Italia siamo noi di Cremona, io perché ancora oggi incredulo di fronte a ciò che è successo, gli altri perché in provincia in mancanza di meglio si scrive di tutto.
      Basta respiri e Alberto Stasi ha tutta la stampa che conta a raccogliere; il Corriere on line dedica molto spazio alla sua lettera, dove protesta cose evidenti, l’ultima, il Procuratore generale che chiede un altro processo perché le prove, quelle “oltre ogni ragionevole dubbio”, mancano, ma la Corte di Cassazione vede evidentemente di più, e condanna subito, per sempre.
      Pure, nel suo caso la povera morta ammazzata c’è; nel caso Iori nemmeno quella.
      Sia chiaro, lo ripeto ancora, i giudici son davvero convinti che Maurizio Iori sia colpevole, ma il grave sta appunto lì, la loro idea innata li ha condotti a non vedere cose elementari, a far crescere ragionamenti che in altri luoghi loro per primi chiamerebbero assurdi. Il primo fatto/ragionamento in ordine causale è lo Xanax: di fronte alla presenza fisica di blister che contenevano 95 pastiglie, nell’impossibilità di immaginare un omicidio dove l’assassino le fa mangiare di nascosto alle vittime, vien sottinteso non fossero pastiglie, ma gocce. I consulenti che dicono, è materia dove il codice non c’entra: non avendo esaminato lo stomaco col microscopio, solo a occhio nudo perché evidentemente anche gli autoptici davano scontato il suicidio, non è staro possibile distinguere particelle solide, quindi non si saprà mai se pastiglie o gocce. Questo è il responso scientifico agli atti del processo, e i giudici non lo smentiranno mai, come potrebbero? ma nelle pieghe delle motivazioni sottintendono sempre: gocce!
      Se non è travisare questo, e travisare è verbo ammesso dal codice!
      Un aiuto per tornare sulla retta via in realtà ci sarebbe stato, ma i giudici han deciso altrimenti; stringendo, sul tavolo blister vuoti e nessun contenitore di gocce, sarebbe da ingenui pensare che l’assassino, in previsione di un’autopsia esatta, impieghi le gocce e lasci i blister, ma i giudici han pensato a modo loro anche qui, Claudia Ornesi ha in corpo pure una piccola dose di Valium, e non ci sono in casa contenitori di alcun tipo, quindi glielo ha dato, sempre di nascosto, Iori, che di nuovo s’è portato via il contenitore, come si usa coi biglietti per la caccia al tesoro!
      L’aiuto, dicevo; sotto il corpo della piccola Livia si trova una pastiglia di Xanax, apparentemente intatta, secondo le foto, ma quando da Crema arriva al laboratorio di Milano è poltiglia! Che pensare? Siccome dentro la pastiglia c’è senza alcun ragionevole dubbio il suo Dna, s’è sfatta per il lavorio degli acidi gastrici, l’ha ingoiata e poi vomitata; altre soluzioni non se ne vedono, e comunque van dimostrate. In Appello a Brescia, Fischetti&Vacchiano stabiliscono: la pastiglia, integra in foto a Crema, s’è sfatta durante il trasporto a Milano a malcura della Scientifica!
      Premesse: la pastiglia è durissima, in un primo momento Iori fu sospettato d’aver un mortaio per sminuzzarla, e comunque Fischetti&Vacchiano non ordinano perizie per sapere quanto fosse dura, non scrivono le condizioni del trasporto, quindi non risulta in base a quale ragionamento siano arrivati alla conclusione eccetera; non solo, in Aula a Cremona il Pm interroga l’ispettore, risulta dal verbale d’udienza, per sapere come la Scientifica conservi i reperti ed è un profluvio di autoelogi, non solo, gli ispettori furono premiati per la cura messa nelle indagini eccetera…..
      Alberto Stasi si lamenta, e ha tante ragioni, ma Maurizio Iori che dovrebbe dire?

      Cremona 31 12 2015 http://www.flaminiocozzaglio.info flcozzaglio@gmail.com

      flaminio cozzaglio

      gennaio 1, 2016 at 9:25 am

  2. Il dialogo tra lei e Piero Tony è interessante, a mio modo di vedere, soprattutto perché mette bene in luce ciò che non pochi giuristi (purtroppo) e moltissimi non-giuristi (il che è più agevolmente comprensibile) pensano: che il giurista e il diritto possano essere nemici della democrazia sub specie di attentato contro la certezza del diritto se appunto il giurista, cioè l’interprete, cioè il giudice (che è interprete istituzionalizzato del diritto, se non altro perché ha l’ultima parola) gode di troppo potere interpretativo.
    L’intervento di Vitiello si muove all’interno di questa prospettiva, tanto è vero che lamenta il fatto che il sistema processuale lasci ai magistrati – dall’inizio alla fine – «margini così spaventosi di discrezionalità e di arbitrio irresponsabile da magnificare, anziché comprimere, l’elemento soggettivo».
    Faccio notare che Vitiello non si riferisce esclusivamente agli arbitri nella condotta delle indagini e in senso più ampio nella fase istruttoria, cioè non si riferisce soltanto agli arbitri relativi a condotte materiali (es., maltrattare l’indagato), ma anche (e io credo soprattutto) all’arbitrio intellettuale rappresentato da una motivazione appunto ‘arbitraria’, cioè in sostanza frutto non tanto di una opinione personale del giudice, ma di un’opinione bizzarra, diciamo pure insostenibile.
    Ora, con tutto il rispetto per Vitiello, questa descrizione è caricaturale. Non necessariamente perché non esistono o non possono esistere questi tipi di arbitrio (e quando esistono è molto facile prevedere che il successivo grado di giudizio azzererà quella bizzarria, quel capriccio interpretativo), ma soprattutto perché l’equazione che Vitiello dà per scontata (cioè: meno potere interpretativo ai giudici, uguale meno arbitrio, meno abusive restrizioni della libertà personale, dunque meno ingiustizie ecc. ecc.) è fallace.
    Per due ottime e semplici ragioni: i) il diritto non esiste senza interpretazione; ii) non esistono significati oggettivi delle norme.
    E dato che Vitiello professionalmente non potrà non occuparsi anche di ermeneutica, saprà benissimo quali sono, appunto, i problemi che il campo dell’interpretazione pone. Perché mai l’interpretazione giuridica dovrebbe essere banalizzata come cosa facilissima, quasi meccanica? Facilissima, perché, se bastasse far leggi ‘chiare’ e restringere al massimo i poteri interpretativi del giudice, tutti i problemi sarebbero automaticamente risolti. Ma questo mi pare proprio un approccio oltraggioso per il diritto, affetto da un deprecabile formalismo che, in questa veste, nemmeno il più retrivo e ottuso giurista potrebbe sottoscrivere.
    Quindi mi pare evidente che un conto è la critica alla sentenza, un altro conto è ridurre la critica a un problema di eccesso di potere interpretativo del giudice.
    Sotto questo aspetto ciò che ha scritto Piero Tony è fin troppo conciliante, e, mi permetto di dire, in parte reticente. Perché, da magistrato, conosce perfettamente la complessità (fortunatamente!) della questione interpretativa, e a mio avviso avrebbe dovuto rispondere e replicare alla banalizzazione di Vitiello.
    Invece Piero Tony non solo scrivere di sostenere, in sostanza, la stessa cosa di Vitiello (il che, fortunatamente, non è vero), ma soprattutto non tiene distinte due questioni: quella della responsabilità disciplinare dei magistrati (per cui c’è l’apposita sezione del CSM), e la questione in senso ampio culturale (cioè di cultura giuridica, in generale, e di cultura processuale, cultura della prova, in particolare), soprattutto nel rapporto tra cultura giuridica e formalismo giuridico.
    Sotto il primo aspetto, è facile replicare a Tony (come del resto anche a Vitiello) che comportamenti processualmente abnormi non sollevano né un problema di cultura giuridica, né un problema di cultura tour court, né un problema di interpretazione: sono comportamenti rispetto ai quali dovrà pronunciarsi il CSM, se non altro per l’evidente carenza di professionalità. Quindi il magistrato che in sostanza dice: per me è così, punto e basta, e così decido, non è l’esempio di un comportamento dettato da scarsa cultura, né un comportamento affetto da formalismo, ma semplicemente un comportamento professionalmente stigmatizzabile. Aggiungerei: magari i problemi principali fossero posti da questi comportamenti. Ci saranno pure: non lo so ma non lo nego nemmeno, ma sono comportamenti facilmente neutralizzabili (e che giustamente daranno luogo anche a un risarcimento del danno a favore della persona che abbia subito le conseguenze di tale condotta anti-professionale). È senz’altro doveroso aggiungere che questi problemi spesso non hanno ricevuto un trattamento adeguato da parte del CSM, e qui basta leggere qualcuno dei molti scritti di Giuseppe di Federico e di Carlo Guarnieri, ma l’aggiungere ciò non produce l’effetto di trasferire la questione nel solco del discorso né di Tony, né di Vitiello (ma è sicuramente vero che il problema del CSM, delle correnti ecc. è anche un problema culturale: Tony, nel suo secondo intervento, ne fa più che un cenno).
    Ma c’è il secondo aspetto: intanto mi pare opinabile quanto Tony scrive in riferimento alla cultura della prova e gradi di giudizi successivi al primo. Ovvio che i giudici di appello dovranno ragionare ex ante. Ma che cosa vuol dire? Una cosa molto semplice e che mi stupisco Tony non abbia scritto: che i giudici di secondo grado dovranno ristudiare il materiale probatorio, certo; ma questo materiale probatorio ha già trovato nella sentenza di primo grado una sua sistemazione (sentenza contro cui si rivolge l’impugnazione). Dunque i giudici di secondo grado, se è vero che debbono giudicare ex ante (cioè sulla base di quel materiale), non è vero che possono far finta che la sentenza di primo grado non esista. E’ vero proprio il contrario: i giudici di secondo grado dovranno verificare se il modo di leggere il materiale istruttorio adottato dai primi giudici sia convincente o no. Quindi la locuzione ‘ex ante’, che nell’intervento di Tony sembra prossima all’arbitrio, inteso come perfetta legittimazione del giudice ad astrarsi da tutto il resto, impone, al contrario, proprio il dialogo del giudice di secondo grado con ciò che ha pensato e scritto il giudice di primo grado.
    Se poi (come in effetti mi sembra) la critica di Tony era rivolta al fatto che il quadro probatorio non può essere arricchito in appello, o meglio la possibilità di dare ingresso a nuove prove trova margini stretti, allora questa critica non attiene tanto alla cultura dei giuristi, ma semmai impone un ripensamento della funzione dell’impugnazione. Che però mi sembra una cosa diversa rispetto all’oggetto della discussione, per come impostata dallo stesso Tony.
    E allora veniamo al problema di cultura giuridica in senso proprio: benissimo il riferimento, da parte di Tony, alla dignità, ai diritti fondamentali, al diritto penale minimo, ma tutto questo inevitabilmente (e, a mio avviso, ciò è un bene) allarga e non restringe i limiti discrezionali del giudice. Tanto è vero che Tony ha parole dure nei confronti del formalismo, mettendo insieme il formalismo stantio con l’insensibilità giudiziaria, appunto nell’idea che il giudice può rifugiarsi dietro le parole della legge rigidamente intese per commettere un’ingiustizia.
    Ma allora perché Tony si dichiara in premessa d’accordo con Vitiello, il quale, almeno in questa prospettiva, è un gius-formalista, appunto confidando che le parole chiare della legge e la loro stretta interpretazione (cioè letterale) da parte del giudice possano rappresentare un serio antidoto contro l’abuso?
    Al contrario, l’appello (condivisibilissimo!) di Tony alla cultura at large del giudice e del giurista in senso ampio si fonda ovviamente su un presupposto contrario a quello di Vitiello, e cioé: proprio perché la questione interpretativa non può essere sterilizzata con anacronistici (e materialmente impossibili) ritorni al formalismo, la via migliore (che è del resto quella oggi maggiormente praticata dai giuristi, grazie anche al fenomeno di sempre crescente intensità del cd. dialogo tra corti e soprattutto tra giurisdizioni diverse) è quella di spostare il problema dell’applicazione del diritto sul terreno della cultura giuridica, cioè prestando attenzione al contesto ordinamentale non solo ovviamente italiano (e dunque alla Costituzione, che, bella o brutta che sia, certo non è un testo normativo che risolva una volta per tutte le questioni; anzi è vero l’opposto: il senso, l’utilità pratica delle costituzioni è di essere un testo vivo, vivente, e che vive proprio grazie all’interpretazione, e non nonostante l’interpretazione), ma transnazionale. E infatti giustamente Tony scrive che «non esistono norme isolate, essendo ciascuna di esse inserita in una rete normativa di contesto costituzionale che ne decifra il senso […]». Ma scrivere questo vuol dire aprire (il che, lo ribadisco, è un gran bene) e non chiudere gli spazi dell’argomentazione del giudice, proprio perché il diritto non è affatto la «Legge», ma ha una dimensione sociale, ordinamentale che, proprio dal punto di vista della cultura e del pensiero giuridici, potrebbe essere meglio apprezzata, compresa e difesa se ci si sforzasse (qui il compito è soprattutto dell’università: e giustissimo ritengo il riferimento al fatto che nei corsi universitari di diritto manchino «cattedre… di fili sottili», come scrive Tony) di guardare al giurista, prima di tutto, come a uno scienziato sociale e non come un applicatore quasi inumano di asettiche parole contenute in qualche testo legislativo (che, pace Vitiello, da sé non parla).
    Spero che sul Foglio lei voglia proseguire nel suo con Tony, e soprattutto spero che emergano i punti di dissenso.
    Buon anno e saluti cordiali
    Mauro Grondona

    Mauro Grondona

    gennaio 4, 2016 at 1:19 PM

    • Caro Grondona, buon anno anche a lei e grazie per il suo lungo e competente intervento; mi pare, tuttavia, che lei abbia letto nel mio breve corsivo più cose di quante ce n’erano, e che mi abbia attribuito opinioni che non mi appartengono (se mi consente, con qualche forzatura da “straw man argument”). Non sono né un giurista né un giornalista giudiziario, dunque non posso dire di avere un’opinione degna di essere espressa o presa in considerazione sulle questioni che lei solleva; non sono tuttavia neppure così sprovveduto da credere ciecamente nel mito del giudice “bocca della legge”, e nell’equazione meno potere interpretativo = meno ingiustizie. Il punto non era quello. Mi limitavo a segnalare che il nostro sistema processuale – soprattutto nella fase delle indagini, ma non solo – lascia amplissimi margini all’iniziativa e vorrei dire al capriccio individuale del magistrato, sotto la finzione dell’obbligatorietà (son cose che ho imparato proprio dal professor Di Federico); e che dunque la distinzione tra liturgia (da riformare) e celebranti (non responsabili della liturgia) si applica male ai nostri casi. Cordialmente, GV

      Guido

      gennaio 4, 2016 at 1:50 PM

      • Caro Vitiello,
        può essere che io abbia letto ciò che lei non ha scritto e nemmeno pensa. Ma lei, non giurista, ha certamente un’opinione degna di essere presa in considerazione su questi temi, se non altro perché se ne occupa con una certa passione. D’altronde, questo della discrezionalità ecc., è un tema da sempre centrale e che, da noi più che altrove, continua a dividere profondamente giuristi e non giuristi. Chissà se si arriverà a una conciliazione che non mortifichi la mobilità del diritto e che non giustifichi certo indiscutibile malcostume giudiziario. Cordialmente, mg

        Mauro Grondona

        gennaio 4, 2016 at 2:00 PM

  3. non c’entra del tutto, ma conosci la vicenda del Sizzi? Non sembra una severità eccessiva nei confronti, tutto sommato, di un debole? https://ilsizzi.wordpress.com/2014/09/10/condannato-per-reati-dopinione/

    eliaspallanzani

    gennaio 11, 2016 at 1:26 PM

  4. E neanche un cazzo di garantista scusate il francesismo per una roba come l’omicidio stradale (con possibilità di perizie coattive disposte dal PM per dire il livello) e tanti saluti ai concetti di dolo e colpa.
    Ma niente, il problema è solo mettere il PM sotto l’esecutivo, così sai come siamo più garantiti,

    david

    marzo 2, 2016 at 6:50 PM


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