Mi iscrivo ai terroristi (Mani bucate, 12)
Bellezza riposata dei solai, dove il rifiuto secolare dorme! E dove può capitare di trovare, in una vecchia scatola di scarpe piena di cassette musicali lasciate a svernare per un’improbabile seconda primavera del mangianastri, una Sony HF da 60 minuti, con l’etichetta messa un po’ di sghembo e un misterioso nome appuntato a matita: Magnotta. E al solo leggere quelle tre sillabe, nel mio cuore amico scende il ricordo. Magnotta, nome non fine ma dolce, che come le essenze resusciti le adolescenze del millenovecentoottantasette. La lavatrice – che malinconia!
Mario Magnotta era un bidello di un istituto tecnico dell’Aquila con due grossi mustacchi, due occhiali ancor più ingombranti e un esilissimo riporto a coprire appena un testone da bebè pasciuto. Aveva quarantacinque anni quando due ex allievi della sua scuola lo portarono sull’orlo dell’esaurimento nervoso con una serie di ingegnosissimi scherzi telefonici, registrati su una cassetta che di duplicazione in duplicazione arrivò tra le mani dei ragazzini di tutta Italia e nelle autoradio di una nidiata di neopatentati. Ma bello più di tutti era lo scherzo della lavatrice.
Nell’aprile del 1981 Magnotta aveva comprato una lavatrice Sangiorgio dal dettagliante Bontempi, e la faccenda sembrava chiusa lì. Sei anni dopo, però, i due burloni lo trascinarono in un incubo di clausole burocratiche, oscuri passaggi contabili e marketing aggressivo, impersonando vari ruoli. Il direttore della Sangiorgio telefonava da Milano, con un accento caricaturale da personaggio del Drive In: gli risultava che Magnotta nel 1981 avesse firmato un “contrattino” che lo vincolava a comprare una lavatrice nuova, un frigorifero con lavatrice incorporata (!), un forno. Poi era la volta di una misteriosa ditta intermediaria tra la Sangiorgio e il negoziante aquilano, la Cinque-Imperia. Lo chiamò infine lo stesso Bontempi, furibondo, a cui la lavatrice risultava non pagata. Pretendeva sette, ottocentomila lire. Voleva recapitargli una lavatrice nuova, con le buone o con le cattive.
L’irascibile Magnotta si difendeva alternando blandizie servili e minacce sanguinarie; gridava e imprecava (“perché mi volete appioppare la roba?”), ma le sue bestemmie erano quasi sonorità astratte, gorgheggi da cantante soul; invocava poliziotti, procuratori, giudici. Tutto inutile. Al culmine dell’esasperazione, nella telefonata del 16 settembre 1987, lanciò tra urla preistoriche la sua minaccia finale: “Mi iscrivo ai terroristi!”. Frase che lo rese giustamente immortale. L’apoteosi pop del bidello cominciò quand’era ancora in vita: Venditti lo volle con sé sul palco in un concerto all’Aquila, le discoteche organizzarono dei Magnotta-party, una tv locale lo scritturò come opinionista protogrillino. Dopo la morte, nel 2009, è risorto come meme di internet, tra parodie di locandine di film, mash-up tra le sue telefonate e quelle della Minetti o di Schettino, moduli online per iscriversi ai terroristi.
Per qualche tempo la cronologia di Wikipedia annoverò la telefonata della lavatrice tra i grandi eventi legati a quel giorno dell’anno, esattamente a metà strada tra il massacro di Sabra e Shatila (16 settembre 1982) e la condanna di Noriega (16 settembre 1992). Era un’ulteriore burla, d’accordo, ma cronologia alla mano se ne può tentare una meno sciocca. Aprile 1981: mentre Magnotta compra la sua lavatrice, il capo brigatista Mario Moretti è arrestato a Milano. Sei anni dopo, aprile 1987, scriverà insieme a Curcio la lettera in cui dichiara conclusa la stagione della lotta armata. Il povero bidello, intanto, è sotto la Skorpion telefonica dei buontemponi. Siamo alle ultime convulsioni della stupidità brigatista: dieci giorni prima del grande scherzo, è smantellato l’apparato delle BR-UCC; neppure una settimana più tardi, il 22, riprende il processo Moro-ter dopo la pausa estiva. È in questo contesto che Magnotta concepisce la sua frase sublime, “mi iscrivo ai terroristi”.
C’è del genio, non è vero? Nell’idea che si potesse aderire a un gruppo terroristico compilando un modulo, neppure fosse il dopolavoro di un ente pubblico, c’era tutta la parabola delle Brigate rosse (e del potere italiano). L’attrito tra una rabbia grezza, informe e l’evasiva bêtise burocratico-ideologica. Il paradosso di una banda che si vuole rivoluzionaria ma che nei suoi comunicati illeggibili (il famoso gerundio del caso Moro, “eseguendo la sentenza”), così simili alle circolari che il povero Magnotta avrà affisso mille volte nella sua scuola, non sa far di meglio che scimmiottare la lingua – anzi, avrebbe detto Calvino, l’antilingua – dei suoi nemici di classe. Il passaggio dagli ultimi fuochi operai, liguri o emiliani, al “borghese piccolo piccolo” con la P38 allevato nei palazzoni degli uffici romani. L’oscura prefigurazione delle nuove BR del terziario, quelle di Biagi e di D’Antona.
“Mi iscrivo ai terroristi”. Era già tutto in quella frase, oggi fatta stampare meritoriamente su una maglietta. Che io, tanto per cambiare, ho comprato.
Il Foglio, 20 agosto 2016
Rispondi