La Repubblica dei Procuratori (Mani bucate, 36)
Il 26 gennaio, inaugurazione dell’anno giudiziario, sembrò a qualcuno che dalle toghe bordate di ermellino irraggiasse una solennità insolitamente sinistra. Non si trattava solo di rifondare ritualmente il tempo ciclico del calendario delle udienze: stavolta si celebrava il passaggio a un nuovo eone. Claudio Petruccioli, in quel tono semiserio di ludendo docere che hanno spesso i migliori commentatori su Twitter, ne parlò come di un evento di importanza storica, di quelli che meritano una trafila di maiuscole: “È L’ANNO PRIMO DELLA REPUBBLICA GIUDIZIARIA”.
Io dico che siamo come minimo all’Anno Venticinquesimo; ma negli ultimi tempi alcune formule coniate dalla carboneria garantista – Repubblica delle Procure, dei pm ecc. – hanno preso a circolare anche in cerchie più vaste, e sono moneta corrente sui giornali. Forse è utile ripercorrerne un poco la storia. La Repubblica delle Procure è il titolo di un bel pamphlet di Arturo Gismondi del 1996, ma il precedente più significativo è un altro: La Repubblica dei Procuratori di Domenico Marafioti, avvocato, scrittore e polemista dotato di strabiliante chiaroveggenza. È una raccolta di articoli scritti tra il 1965 e il 1982 e pubblicati l’anno dopo dall’editore calabrese Informazioni & Commenti, con una presentazione di Giuliano Vassalli.
Rileggere i libri profetici non è un vezzo archeologico, un’occasione per appuntare una coccarda al primo arrivato o per ripescare un brevetto dagli archivi – tanto più che Marafioti stesso riconosceva che la formula, “Repubblica dei Procuratori”, l’aveva già usata Pasquale Curatola nel 1972 in un convegno del Mondo. Se vale la pena di riaprire quelle pagine lontane è perché il profeta non è un indovino, ma è qualcuno che posa sul presente occhi così limpidi da scorgere il futuro in gestazione. Ben prima di Mani pulite, Marafioti aveva intuito che “l’assurdo sistema italiano” – fondato sulla menzogna dell’obbligatorietà, sull’equiparazione illogica tra l’indipendenza del giudice e l’indipendenza del pm, sul rifiuto pseudo-libertario di ogni organizzazione gerarchica e sulla totale irresponsabilità – ci metteva su un piano inclinato pericolosissimo. Bastava perdere un po’ di attrito istituzionale, ed ecco che saremmo scivolati giù. Marafioti non poteva prevedere l’insaponata del 1992, che avrebbe reso il piano più sdrucciolevole; ma pochi passi sparsi di La Repubblica dei Procuratori bastano a capire che aveva ben chiaro l’approdo: “Un paese che finisce con il riporre nell’intervento provvidenziale del magistrato gran parte delle sue istanze – dal fatto amministrativo a quello sportivo, dalla difesa ambientale al regime dello sciopero, solo per esemplificare – si illude di aver conquistato una giustizia penale moderna, mentre in realtà non sa di arretrare di secoli, verso la giustizia del ‘principe’, senza rimedi adeguati per controllarne l’esercizio, nonostante l’apparente perfezione delle garanzie formali, costituzionali e no”. Il processo di autonomia e indipendenza dei magistrati, poi, rischia di spingersi “fino all’anarchia e all’atomismo giudiziario, con ricorsi storici che, sotto apparenze istituzionali moderne e garantistiche, richiamano le divisioni, i contrasti e le attribuzioni di potere dei secoli passati, come ai tempi delle signorie e dei principati”. E si deve far tutto per evitare “che ogni ufficio del pm possa considerarsi quello d’un signorotto dell’azione penale”. Signorotto: Marafioti, che nella sua seconda vita di letterato era un amante di Manzoni, non usava a caso questa parola. Aveva intravisto il futuro – e il futuro veniva dritto dal Seicento.
Il Foglio, 11 marzo 2017
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