Guido Vitiello

Sergio Caputo, il nostro Flaiano minore

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Se Ennio Flaiano avesse scritto una canzone, sarebbe stata L’astronave che arriva di Sergio Caputo. Non l’ha scritta, non avrebbe potuto scriverla perché era morto da più di dieci anni, e non escludo che in vita ne abbia scritte altre (ce lo diranno i flaianologi). Ma se pure ne avesse scritte altre, le avrebbe ripudiate tutte pur di intestarsi la canzone più felice degli anni Ottanta, o meglio, la sola che abbia saputo scivolare con grazia sulla scricchiolante felicità di quel decennio. E non avrebbe pignorato l’astronave di Caputo per dare una nuova casa al suo marziano, che è venuto a noia a tutti e di certo sarebbe venuto a noia anche a lui, a forza di rifritture. È una questione di stile, di tono, di quella qualità aerea e impalpabile che siamo soliti chiamare sprezzatura. Chi, se non Flaiano, avrebbe potuto pensare versi come questi: “Lungo le spiagge primordiali a commentare: / ‘ma guarda un po’ com’è moderna l’astronave’”? E invece, li ha pensati Sergio Caputo; e ne ha pensati moltissimi altri che sembrano strappati al Diario notturno, per quella dismisura lieve degli elenchi incongrui (“Sognavo anch’io, ma erano sogni dispersivi / ossi di seppia, tundre, articoli sportivi”), e per l’abilità di starsene in disinvolto equilibrio in posizioni impossibili, che è poi la definizione stessa di sprezzatura.

Fosse stata una parodia di Flaiano, la canzone non conserverebbe ancora oggi il fascino delle cose vive, e la patina del manierismo le si sarebbe ispessita addosso. E invece è più probabile che si sia trattato di un misterioso caso di reincarnazione spontanea. Non credo che Flaiano fosse tra le fonti di Caputo, e la cosa più vicina che cita nel suo libro autobiografico Un sabato italiano è Fellini, quello romano e quello riminese. Ma per un decennio breve di grazia, dal 1983 al 1989, il sovrabbondante talento di Caputo fece risuonare per l’Italia una voce dispersa da vent’anni, se vogliamo prendere come riferimento simbolico la chiusura del Mondo di Pannunzio.

La circostanza ha qualche interesse per gli storici del costume. C’è qualcosa nella contorta psicologia nazionale che ci porta a vedere tutte le stagioni di relativa prosperità come catastrofi, perdite dell’innocenza, disastri antropologici: è stato così per il primo miracolo economico, è stato così per gli anni Ottanta. Questo perché siamo un Paese di santi, di diffidenti e di sabotatori, e non dobbiamo sempre darne la colpa a Pasolini. Ma se negli anni Sessanta il controcanto lieve degli umoristi aveva le sue filarmoniche dove esercitarsi, vent’anni dopo la sera non si andava più a via Veneto, si procedeva alla spicciolata o al limite si andava da Arbore. E così gli abiuratori di quel decennio hanno buon gioco a identificare la sua sola allegria con le risate registrate del “Drive in”, isteriche e cupissime. Ma chi vuole attingere al distillato più puro della felicità degli anni Ottanta riascolti L’astronave che arriva di Sergio Caputo, l’unico che seppe ripiegare sapientemente l’una sull’altra le due stagioni della dolce vita. E non proveniva dalle compagnie, sempre più esigue, dello snobismo liberale: lo spirito beffardo di Flaiano scelse di atterrare nell’ultimo posto in cui avremmo potuto aspettarcelo, nell’estrema destra romana, in cui Caputo orbitava negli anni Settanta salvo poi abbandonare Roma e la politica (vedi alla voce “Sabato italiano” in Fascisti immaginari di Lanna e Rossi).

C’è una lezione da trarne? Se c’è non è certo una lezione moralistica, e comunque non so qual è.

Il Foglio, 5 agosto 2017

 

Written by Guido

agosto 17, 2017 a 12:09 PM

Pubblicato su Il Foglio

2 Risposte

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  1. Completamente d’accordo. Caputo è un campione della sprezzatura, come emerge evidente nel suo “Disperatamente e in ritardo cane”, ed. Mondadori, 2008, che segnalo per una lettura gustosa.

    MM

    agosto 19, 2017 at 10:05 am

  2. […] «ossi di seppia, tundre, articoli sportivi»: una piccola fenomenologia di Sergio Caputo, uno dei talenti più grandi della canzone […]


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