Quando lo stolto indica la Luna, il saggio guarda il dito
Quando lo stolto indica la Luna, il saggio guarda il dito. Così capovolta, la massima mi piace già di più – e poi fa bene scuotere di tanto in tanto le metafore anchilosate. È difficile risalire alla fonte originaria di un detto così antico, diffuso nella tradizione zen come invito a non restare ancorati ai precetti e a tendere piuttosto all’esperienza ineffabile che quei precetti indicano. Neppure è facile individuare il momento esatto in cui la storiella del dito e della Luna cominciò la sua carriera politica, anche se un buon ancoraggio simbolico è il maggio 1968, quando la mano di un giovane contestatore la scarabocchiò su un muro del Conservatorio di Parigi. Il risultato di questo passaparola è che oggi, nelle raccolte di citazioni, la troviamo indifferentemente attribuita al Buddha e a Mao.
Nel dibattito italiano, la massima si presta da anni agli usi più grossolani, fino a questi giorni in cui i bonzi locali la usano per commentare l’affare Woodcock-Scafarto o l’inchiesta di Fanpage; e non è un caso che il più grande metaforista della Seconda Repubblica sia stato Antonio Di Pietro, che irruppe sulla scena indicando la Luna della corruzione con un dito di quelli che qualunque brava mamma ti spedirebbe difilato al lavandino prima di ammetterti a cena. Una frase di Di Pietro riportata da Cossiga (“Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”) serva da illuminazione zen sulla questione del dito, che non è questione di forma, se non nella misura in cui la forma è la sostanza dello Stato di diritto. Perché non bisogna essere epistemologi per constatare che il dito (i metodi d’indagine, l’imbastitura dei processi, le tecniche dell’inchiesta giornalistica) fa ben più che indicare la Luna: ne descrive sul cielo notturno i contorni con un arbitrio che non può essere sottaciuto e che non può pretendersi esonerato dalla discussione; in altri casi (è la logica stessa dell’agente provocatore), non solo descrive la Luna, ma la crea. E il tentativo di stornare l’attenzione dal dito per far sì che l’osservatore resti abbagliato dalla Luna ricorda, più che l’insegnamento di un maestro zen, l’espediente del prestigiatore che ti fa il trucco sotto il naso. Tutti sanno che c’è un solo modo per non soccombere a un illusionista: tenere gli occhi fissi alle sue mani e ai suoi gesti. Ecco perché, quando lo stolto indica la Luna, il saggio guarda il dito; e quanto più è saggio, tanto meno accetterà di farsi mostrare il cielo da una mano sozza, adunca, bitorzoluta e con le unghie nere.
Ma non è questa la sola “picciola favoletta” – ossia il mito in miniatura, come Vico definiva le metafore – di cui gli illusionisti politici si servono per compiere i loro trucchi di bassa magia. Un’altra è quella del tappo: il tappo che impedisce alla protesta rabbiosa e violenta di venir fuori dalla bottiglia. L’aveva usata molti anni fa il padre del qualunquismo Guglielmo Giannini, che si vantava di essere il solo argine allo scoppio della guerra civile in Italia (non fu preso molto sul serio). Da anni lo vanno ripetendo con più fortuna, e con tutta l’ipocrisia di cui sono capaci, quei sansepolcristi imbiancati dei grillini. Nel frattempo, le cose degenerano e le profezie si autoavverano. Ora tocca al leader di Forza Nuova Roberto Fiore presentarsi, in una videointervista al Fatto Quotidiano, come un “argine per l’ordine civile”; dunque pare di capire che senza i grillini avremmo i fascisti, e ora senza i fascisti ci sarebbe qualcosa di peggio ancora. Il bluff illusionistico è semplice, e non serve il diploma della scuola di magia di Harry Potter per capire come funziona: con una mano tengono fermo il tappo di sughero, dicendoti (ma devi credergli sulla parola) che la bottiglia è sul punto di esplodere, che se non fosse per loro saremmo già tutti fradici; intanto, con l’altra mano, agitano la bottiglia più che possono – aiutati in questo dalle dita robuste di un’informazione già ubriaca – e creano così, giorno dopo giorno, quella violenza compressa che dicevano di voler solo contenere e incanalare. Ma anche in questo caso, per non cascarci, è buona norma non allontanare gli occhi dalle mani: perché quando lo stolto indica il tappo, il saggio guarda il bottiglione del Gran Premio di Formula Uno. E capisce subito che, a tener bordone ai mestatori fascisti o sfascisti che si gabellano per argini civili, alla fine qualcosa scorre nelle strade – e di solito non è champagne.
Il Foglio, 24 febbraio 2018
Un po’ leziose (stavolta) le quaranta righe del pezzo, si accendono solo nella grandguignolesca allusione finale. E sia!, verrebbe quasi da dire.
Battista Tirondola
marzo 4, 2018 at 2:45 am