LTR. La Lingua della Terza Repubblica
Illiberali, noi? Il commissario Moscovici non si permetta di insinuarlo, perché siamo la seconda forza manifatturiera d’Europa. Se a distanza di tre mesi questa frase di Luigi Di Maio ancora mi perseguita è perché, approfittando della distrazione dei miei primi sghignazzi, si è fatta strada dentro di me fino a raggiungere la regione buia dove prendono forma incubi, presagi e terrori. Quando il ministro dello sviluppo economico nonché capo del primo partito italiano è candidamente convinto che “liberalismo” sia sinonimo di “manifattura”, per il piccolo clan dei liberali è qualcosa di più di una sconfitta, è una minaccia di estinzione linguistica. Etnologi e linguisti conoscono bene il fenomeno: accade che il numero dei locutori di una lingua si assottiglia – per guerre, genocidi, pulizie etniche, catastrofi naturali, epidemie – fino a quando a parlarla non resta che una bocciofila di anziani del villaggio. Morto l’ultimo, si porta la lingua nella tomba.
Faremmo bene a prestare orecchio agli smottamenti della semantica che il terremoto populista sta provocando. Il filologo Victor Klemperer documentò la più grande catastrofe linguistica del Novecento in LTI. La lingua del Terzo Reich, disponendo le parole nuove “come soldati del fronte nazista, in lotta con l’universo delle lingue liberali” (così Michele Ranchetti, curatore dell’edizione italiana). La Lingua della Terza Repubblica (LTR) grazie al cielo è meno minacciosa, ma ha già cominciato a svuotare le vecchie parole e a farcirle di significati nuovi, come peperoni ripieni. Nel lessico della LTR si definisce “autonomia della politica” la pratica dell’assolutismo obnubilato; la formula “politicamente corretto” si è annessa ormai i territori semantici del rispetto e della buona educazione, e bombardando l’una si bombardano allegramente gli altri; nella stiva del “buonismo” stanno ammassando giorno dopo giorno tutto quel che resta di civile o di appena decente, con l’intento di mandarlo a picco; “pensiero unico” è invece il marchio con cui timbrano a fuoco le sparute tribù che ancora non scambiano il liberalismo con la forza manifatturiera. Ma è “garantismo” la parola su cui la LTR compie le sevizie più efferate.
Nella Lingua della Prima Repubblica, quando si sapeva di cosa si parlava, per i pochi che la usavano (radicali, socialisti, qualche libertario a sinistra del Pci) era l’argine da imporre alla potestà punitiva dello Stato, la difesa dell’individuo dagli arbitrii giudiziari e dagli abusi polizieschi. Nella Seconda Repubblica ebbe gli slittamenti semantici più vari, fino alla stagione renziana in cui arrivò misteriosamente a designare la piena fiducia nei magistrati e la rassegnata attesa del terzo grado di giudizio. Oggi, con il caso Diciotti, si assiste a un nuovo spettacolare testacoda semantico. Per la mia antiquata formazione radicale – il partito che ben prima del caso Tortora aveva fatto battaglie contro la proroga del fermo di polizia – pensavo che il garantismo, in quel contesto, avesse a che fare tutt’al più con l’habeas corpus dei migranti. Mi avevano insegnato, pensa un po’, che si è garantisti rispetto ai magistrati ma anche rispetto al ministro dell’Interno. A quanto pare, invece, nella LTR “garantismo” significherà difendere il Partito dei Poliziotti dalle intrusioni del Partito dei Magistrati. Fine ingloriosa di una parola non bella, ma nobile.
Quei versi famosi di Pasolini – “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compreso” – mi sembrano più chiari oggi di quando li lessi per la prima volta. Ma vediamoci di tanto in tanto, finché siamo vivi, alla vecchia bocciofila garantista. L’ultimo chiuda la porta, e se è possibile non butti la chiave.
Il Foglio, 2 febbraio 2019
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