Amo le rose che non colsi (e i libri che non scrissi)
Due reggilibri affiancati, e il vuoto in mezzo: My Unwritten Books (New Directions, New York 2008), il libro di George Steiner sui suoi libri non scritti, risuona a lutto fin dalla copertina.
Il lutto di chi sul finire dei giorni si trova davanti i montaliani “pochi fogli”– che siano poi davvero pochi o molti (nel caso di Steiner, una trentina di volumi) non importa: è sempre un monticello irrisorio a fronte della selva dei possibili, delle opere fantasticate e mai date alla luce.
È, questo, il libro più scopertamente autobiografico di Steiner, perfino più di Errata. Quando, in Chinoiserie, tradisce la sua fascinazione per la mente titanica del biochimico e sinologo Joseph Needham, autore di un’opera che ha l’architettura strabiliante di un theatrum mundi barocco, avvertiamo il senso d’impotenza di un altro grande erudito, che tuttavia quasi mai ha trovato l’energia mentale per dar forma sistematica alla sua erudizione.
Quando Steiner tenta, per cenni, di fondare una poetica e una retorica dell’amore carnale (The Tongues of Eros), intravediamo la vicenda quasi picaresca di un’educazione sentimentale vagabonda tra l’Europa e l’America. Quando poi si avventura su un terreno assai scivoloso, quello di definire una Jewishness immutevole, un'”essenza” perenne dell’ebreo (Zion), ecco che si fa sentire, sottotraccia, l’orgoglio dell’esule per destino che si fa chierico vagante per vocazione.
Ma dove più ci si accosta ai toni di una mera confessione è nelle pagine su Cecco d’Ascoli, che visse l’incubo di qualunque poeta: esser contemporaneo di Dante Alighieri. Il libro sull’invidia Steiner non l’ha mai scritto perché, confessa, andava troppo near the bone – anche se la sua, di invidia, è rivolta ai grandi creatori più che ai critici suoi diretti rivali.
A conti fatti, richiuso My Unwritten Books, almeno per il lettore il lutto è pressoché annullato: le sette “lettere a un libro mai nato” ricordano così da vicino i libri più recenti di Steiner – straripanti, divaganti e ostinatamente incompiuti – che par quasi di avere già in mano le opere concluse.
Questa recensione è uscita sul n. 3 di Satisfiction.
Rispondi