Guido Vitiello

La Calliope incallita di Erri De Luca

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“E non disse. | E disse”. Basterebbero queste cinque parole d’esordio, sospese tra la solennità stentorea di un’antica cosmogonia e un’insipidezza da terza o quarta acqua del caffè ermetico-simbolista, per compendiare L’ospite incallito, l’ultima raccolta di poesie di Erri De Luca che Einaudi manda in libreria in questi giorni.

Dove ci s’imbatte ad ogni pagina in ungarettismi da terza liceo (“M’innaturo di te quando t’abbraccio”) o, all’occasione, in astratti barbuti furori profetico-veterotestamentari con tanto di testo a fronte perché l’autore, si sa, mastica l’ebraico biblico (“Ir haddammím, città dei sangui, ad matài? | Fino a quando?”). La città dei sangui in questione è Gerusalemme, per De Luca “tale e quale a Napoli”, e non per caso l’altra lingua esoterica che s’insinua goffamente nella trama dei versi è il napoletano, anch’esso in traduzione simultanea (“Le voci, ‘e vvoce, pure tra le campane a festa | salivano scendevano, saglievano scennevano”).

La Gerusalemme di De Luca, dove “ogni uccello è un pappagallo di angeli” e “il cane abbaia alla luna ferma sopra le valli di Aialòn”, è tra i luoghi più incredibilmente kitsch mai delineati da penna poetica: “Qui si può andare scalzi, la suola te l’impresta la storia”. E bene avrebbe fatto, De Luca, a valersi dei servigi della gran calzolaia, perché a furia di girovagare a piedi nudi tra terre sante e dissacrate, tra i lacrimogeni dei celerini e i cecchini di Sarajevo, va a finire che l’ospite s’incallisce davvero, e la sua Calliope ha bisogno urgente delle cure di un podologo.

Fuor di metafora, l’ultima fatica poetica di De Luca è fatica improba, perché non c’è pagina in cui il nerboruto poeta, già uomo d’ordine di Lotta Continua e oggi scalatore di rocce, non lasci trapelare lo sforzo, l’affanno del versificare, convinto com’è che le vette dell’emozione lirica si conquistino grazie a una sorta di alpinismo formale fatto di cozzi vertiginosi tra parole lontane, di un metaforeggiare audace fino all’insolenza, di sinestesie astruse che tutto evocano fuorché i sensi, e il senso.

Al centro del quadro c’è un io lirico gonfio come un batrace, che non si scorda lo specchietto da tasca anche quando pare immerso nell’uno o l’altro degli scenari di un vivere inimitabile, che qualcuno – Massimo Onofri – ha ritratto meravigliosamente come “estetismo operaio”, ultima metamorfosi dell’eterno dannunzianesimo. C’è un’attenzione feticistica per il corpo, il corpo di atleta-guerriero-scalatore-amante, degna di un sotto-Mishima partenopeo; c’è la trasfigurazione di qualunque banale accidente della vita in epopea politico-esistenziale, più irritante quando è all’opera un ego espansionista che cerca di annettersi l’intera vicenda di una generazione.

“Ospite fisso a casa della rivoluzione”, Erri De Luca si celebra come “disertore di campo e di futuro apparecchiato”. Lo vediamo nei deserti africani, “steso allo scoperto sotto le fiammelle | accese dall’attrito degli occhi con le stelle”. Lo vediamo mentre, giovane manifestante, cantava l’Internazionale in mezzo ai lacrimogeni, per poi concludere che quella morta canzone risorge solo “se un ubriaco di notte la fischia ai gatti | se un vecchio trombettiere d’osteria la risoffia”. O perché no, un organetto di barberia.

E già, perché l’oleografia kitsch è l’altra cifra del libro, soprattutto quando De Luca tenta la via del ritratto in versi, tra un Charlie Chaplin che ha “nella bombetta i guizzi di scugnizzo” e un Che Guevara che nell’ultima foto – indovinate? – “è il Cristo di Mantegna deposto seminudo”. Fino a che, abissale momento della verità, l’esteta-profeta partenopeo imbrocca una felice immagine pulp, e assicura che ogni libro “è cellulosa uccisa da una motosega”.

Non ogni libro forse, ma questo sì.

***

Questo articolo è uscito sul Riformista Ombra del 5 luglio 2008. Qui in formato pdf

Written by Guido

luglio 10, 2008 a 2:54 PM

Pubblicato su Il Riformista

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