Il “quarto incomodo” di Martin Amis
All’epoca dei totalitarismi, sul più banale dei triangoli amorosi pende fatalmente l’ombra di un quarto incomodo: lo Stato, con il suo “peso plumbeo, il respiro adenoideo e lo sguardo imbecille”.
È quel che succede a due fratellastri internati come “fascisti” nel gulag di Norlag e innamorati della stessa donna, la giovane ebrea Zoya, sullo sfondo dell’Unione Sovietica dai tardi giorni di Stalin al disfacimento. Il romanzo di Martin Amis (edito da Einaudi), che si presenta come confessione tardiva e senza espiazione di uno dei fratelli-rivali alla figliastra di Chicago, vive tutto di questo attrito irresolubile tra mélo ed epopea delle moltitudini, tra un mondo dove il destino è inscritto nel carattere e un altro, ben più reale e poderoso, dove esso alberga nelle “forze impersonali” della demografia.
Questa giustapposizione paradossale e sapientemente coltivata di figura e sfondo, dove lo sfondo è troppo immane per non travolgere e “sfigurare” le figure, è esibita fin dal titolo, La casa degli incontri, un grottesco chalet a due piani nei pressi del gulag dove ai deportati era consentito intrattenersi con le mogli, che li raggiungevano in Siberia dopo un viaggio estenuante per ritrovarli spesso irriconoscibili anime morte.
Quella di Amis è più di una ricostruzione storica, è una “fantasia di testimonianza”, per usare l’espressione coniata da Gary Weissman in un libro sulla memoria di Auschwitz: è cioè lo sforzo quasi invidioso di rivivere integralmente l’inimmaginabile dei campi, quell’esperienza iniziatica e “segreta” che gli stessi ex deportati spesso non riuscivano ad afferrare con presa salda nella loro memoria.
Di Sylvia Plath qualcuno disse che non perdonò mai a sé stessa l’aver mancato il “rendez-vous con l’inferno”, e lo stesso mutatis mutandis si può dire di Martin Amis. Che prima si è calato nei panni di un medico nazista ad Auschwitz, nel cervellotico Time’s Arrow, un pretestuoso libro scritto alla rovescia dove l’espediente da science-fiction non si riscatta mai in esperimento modernista; e che oggi, con La casa degli incontri, si cimenta in modo ben più convincente con il gulag.
Certo, in questa “fantasia di testimonianza” è difficile gettarsi anima e corpo, perché Amis ostenta un debito troppo visibile sia con le sue fonti documentarie – che sono le stesse del pamphlet storico su Stalin, Koba il terribile – sia con i suoi imbeccatori letterari. E così l’anonimo narratore si ritrova a citare senza alcun filtro romanzesco, con una pedanteria da sussidiario storico, le statistiche sul possesso dei televisori in Unione Sovietica o gli studi di Christopher Browning sul Battaglione 101; oppure capita che si riferisca alla coy mistress di Marvell o alla Madame Sosostris eliotiana con una familiarità che stupisce in un ex stupratore di guerra russo.
Ma sarebbe ingeneroso soffermarsi su queste tare minori: La casa degli incontri è un libro potente, fatto di periodi meravigliosamente torniti – resi nel migliore dei modi dalla traduzione di Giovanna Granato – e immagini icastiche e definitive. Che rende visibile e palpabile l’organizzazione assurda dei campi e delle gerarchie interne tra categorie di prigionieri, così come fa risaltare appieno il suo “protagonista muto”: il grande impero della noia totalitaria che si estendeva, stolido e inamovibile, al centro di queste frange di terrore.
Questa recensione è uscita sul n. 4 di Satisfiction
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