No hay banda: il poeta come sciamano e come magnetofono
In tempi (sciagurosi) di slam poetry e di reading, di Dante declamato in piazza e di performance letterario-musicali baroccheggianti o bariccheggianti, di rap sanguinetiani e arbasiniani, l’imperativo sembra essere ben questo: affrancare la poesia, tenuta per cinque secoli sotto sequestro – nonché, letteralmente, sotto torchio – dagli scherani di Gutenberg, così da ricondurla alla sua prima radice orale, aurale, musicale, agonistica, retorica e via dicendo.
Ebbene, in tempi (nefasti) come questi, mi capita di tornare con simpatia a quei poeti che mal tolleravano la vita dei loro versi al di fuori della pagina stampata, che guardavano con sospettoso cipiglio da istitutori il loro svergognato propagarsi nello spazio extra-cartaceo come onde sonore, e che in ultimo ritenevano vi fosse un solo modo corretto di accostarsi alla poesia: quella che, da Sant’Ambrogio in poi, in occidente conosciamo come lettura silenziosa.
Tra questi, per esempio, Eugenio Montale. Credo fosse sullo storico numero uno di “Repubblica”, il 14 gennaio 1976, che il poeta fresco di Nobel ribadiva la sua avversione alle letture e alle declamazioni: i suoi versi erano fatti per restare lì, su carta – i “pochi fogli” dei Mottetti trattenuti da uno strano fermacarte, la moneta incassata nella lava. Non per caso, quando sentiamo Montale leggere le sue poesie davanti a una macchina da presa (lo ricordo recitare per la televisione con grandissimo imbarazzo Botta e risposta, da Satura) avvertiamo tutto il suo riserbo, il suo pudore verso un gesto che gli appariva in fin dei conti goffo, violento, innaturale.
Più interessante ancora è il caso di T.S. Eliot, che paragonava la lettura dei versi allo spogliarsi in pubblico – quel che fanno gli esibizionisti in impermeabile – e che quasi di certo avrebbe visto nella moda dei reading una perversione di massa, o di cricca. Dieci anni fa, in una libreria di Edimburgo, scovai un cofanetto della HarperCollins formato da due audiocassette: T.S. Eliot Reading The Waste Land, Four Quartets and Other Poems. Da allora, potrei dire, quell’ascolto non mi abbandona. Sulle prime, Eliot può apparire un pessimo lettore: che sia o meno, come vogliono alcuni, l’esecutore testamentario della civiltà occidentale giunta al suo closing time, è certo che legge la sua Waste Land con la stessa monocorde impassibilità di un notaio che debba rivelare ai congiunti di un uomo appena morto quale destino ha voluto dare alle sue proprietà, senza tradire né suscitare affetti.
In realtà il poeta del “correlativo oggettivo” e degli statements made in our dreams, coerentemente, fa di tutto per disumanizzarsi, nel senso esatto per cui Ortega y Gasset coniò questo termine, ne La deshumanización del arte: assumere un punto di vista radicalmente non umano e non umanistico. Eliot legge con voce algida, così aliena da suonare extraterrestre, ostentando una sorta di inappartenenza ai suoi versi. Sia chiaro, niente di quel borioso, insopportabile, civettuolo, pedagogico, didascalico “straniamento” brechtiano con cui ci è stato tolto il piacere più elementare della finzione. Piuttosto, se volessimo richiamare un altro grande modello del teatro novecentesco, potremmo dire che Eliot legge come una Super-marionetta. Ma siccome tra la marionetta e il posseduto il passo è breve, e nulla ricorda lo sciamano agito da una forza superiore quanto il pupazzo animato dal burattinaio, ecco che Eliot, di tanto in tanto, si mette a recitare come un invasato, il docile strumento di un demone ventriloquo.
Succede, per esempio, nella chiusa di The Hollow Men, forse i versi più celebri di Eliot accanto all’aprile crudele, alla città irreale e al pugno di polvere:
This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper.
Ebbene, su queste parole Eliot accelera improvvisamente la voce, quasi stesse recitando una filastrocca senza senso, un assemblaggio meccanico o fortuito di fonemi, un oracolo da chissà dove e chissà chi. L’effetto è straordinario. In tutta la lettura il poeta si trasforma, per usare le parole del grandioso scritto di Kleist sul Marionettentheater, in “quella costruzione umana che ha o nessuna o un’infinita coscienza, cioè nella marionetta o nel Dio”. È al tempo stesso una non-persona e una super-persona.
Più ancora, mi dico mentre inserisco per l’ennesima volta i nastri nello stereo, qui Eliot si avvicina a quell’ordigno terribilmente perturbante e oracolare che è il sintetizzatore vocale, con cui si aiutano i tanti che per una ragione o per l’altra non sono in grado di parlare (su questa parentela tra la riproduzione tecnica dei suoni, la possessione e gli antichi oracoli è imprescindibile un libro di Steven Connor, La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio, Luca Sossella editore). Il sintetizzatore è uno strumento che sfugge ostinatamente alla nostra presa, come per Ortega i manichini di cera: No hay manera de reducirlos a meros objetos; se li vogliamo credere vivi, subito ci disillude il loro cadaverico rigore, la vacuità terrifica del loro sguardo; ma se ci risolviamo a confinarli nel mondo inerte degli oggetti, ecco allora che da quegli occhi istupiditi barluma una parvenza di vita, un indefinito scintillìo. Così, o quasi, è della voce che esce dai sintetizzatori vocali: meccanica e divina. Val la pena ricordare come un acuto lettore di Beckett vedesse nel suo latitante Godot null’altro che la condensazione di God e Robot.
Chiunque ne abbia occasione, quindi, ascolti The Hollow Men e i Four Quartets nella lettura di Eliot. Che non avrebbe mai preso parte a un reading, certo, ma era davvero il miglior lettore di sé stesso… Pardon, il secondo miglior lettore: il primo è Woody Allen, che in Love and Death, nelle vesti di Boris Grushenko, “compone” due gelidi versi del Prufrock (“I should have been a pair of ragged claws/ scuttling across the floors of silent seas”) e subito accartoccia il foglio e lo getta nel fuoco, esclamando: “Too sentimental!”.
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