Il Muro è caduto anche per Dracula
Anche per Dracula è arrivato il 1989, persino per la sua stirpe assetata di sangue è scoccata l’alba melanconica o augurale della fine delle ideologie. Ma l’aurora, si sa, può esser letale per questi misantropi abitatori della notte, che con ogni mezzo ne rifuggono la luce. E così, a farla breve, i vampiri hanno perso i canini. Guadagnandone in fascino, come dimostra il successo mondiale – a tratti isterico – del vampiro di Twilight. Ricomparsi sulla scena dopo lunga latenza, ci appaiono oggi irriconoscibili: ammansiti se non proprio “buoni”, mutati in creature delicate e romantiche. Di certo, non fanno più paura a nessuno. Non hanno il ghigno cereo e la chioma corvina di un Bela Lugosi, non esibiscono l’orripilante teschio nudo e gli occhi strabuzzati di un Max Schreck o di un Klaus Kinski. Tenebrosi lo sono ancora, per carità, ma della sottospecie dei “bei tenebrosi”. Hanno i capelli scarmigliati e il fascino efebico di Robert Patterson, il vampiro Edward Cullen di Twilight. Così buono da imporsi delle rispettose restrizioni dietetiche, e da scegliere di cibarsi solo di sangue animale. Hanno il volto penitente dei mostri rabboniti con cui si cimenta a volte la “cacciatrice” Sarah Michelle Gellar di Buffy l’ammazzavampiri, desiderosi di espiare i loro secoli di malefatte. O sono perfino in odore di santità come Angel, protagonista dello spin off della serie tv Buffy tutto incentrato su un succhiasangue redento.
Ma soprattutto, presi come sono dai loro amoretti e amorazzi con le comuni mortali, oggi i vampiri s’interessano poco o nulla di politica. È giunto anche per loro il tempo del riflusso. Eppure, non sempre è stato così. A ben vedere, Dracula ha attraversato con il suo veliero infestato l’intero corso del «secolo breve», assumendo di volta in volta le più truci maschere totalitarie. A rigore, la carriera politica di Dracula inizia ben prima del Novecento. Il suo più che illustre mentore è Voltaire, che lo inserisce nell’Encyclopédie come simbolo della tirannide che succhia il sangue del popolo. Ma è Carlo Marx il vero scopritore del volto pubblico di Dracula, il primo a farne nel Capitale l’elaborata metafora di un sistema di sfruttamento. «Il capitale si ravviva come un vampiro», scriveva Marx: è lavoro morto che prospera cibandosi di lavoro vivo, un gigantesco cadavere che ha bisogno di incorporare la linfa vitale del proletariato. E così il Dracula di Bram Stoker, la più fortunata incarnazione romanzesca dell’archetipo, poté esser letto da cima a fondo come metafora del capitalismo monopolistico e parassitario di fine ottocento, come fece il comparatista Franco Moretti in un saggio di trent’anni fa. Ma se la luce del sole è fatale per i vampiri, il Sol dell’Avvenire non è riuscito a domare la terribile creatura. Che ha continuato a prosperare e a riprodursi, in altre vesti e in altre forme, proprio nella patria di Marx.
Se il nazismo – insegnano Albert Camus e Klaus Mann – è una peste, la «peste bruna», non c’è da stupirsi che a portare il contagio in Europa sia stato quell’oscuro aristocratico che viaggia chiuso nella sua bara con un minaccioso carico di topi. Della peste nazista che spazza via una civiltà il Nosferatu espressionista di Friedrich Wilhelm Murnau è una lugubre e infallibile prefigurazione. Lo aveva intuito Siegfried Kracauer, che in Da Caligari a Hitler annumerava il non-morto tra quelle creature mostruose del cinema degli anni Venti e Trenta che spianarono la strada al Grande Stregone. Quando nel film di Murnau vediamo sbucare da un margine dell’inquadratura il bompresso della nave fatale, che giunge a sconvolgere l’armonioso e placido quadretto di un porto cittadino, lo shock figurativo non lascia dubbi: è la Repubblica di Weimar invasa dalle forze demoniche del Terzo Reich, pronte a insediarsi nel cuore della Germania con i loro perversi culti di sangue. Certo, quella coorte di vampiri – Montale li chiamava «i mostri nella sera della loro tregenda » – finì impalata a Norimberga, ma la carriera politica di Dracula non si concluse con la pax mondiale del 1945. Anzi, era già rifiorita da qualche tempo a est: d’altronde, è da lì che proviene l’originario Dracula.
Dalla schiatta del primo «ammazzavampiri», Carlo Marx, era nato un mostro totalitario non meno raccapricciante. I libertarians americani, nemici giurati del «big government», lo sottolineano con ironia: il nome proprio di Lenin, Vladimir, è lo stesso del quattrocentesco Vlad Tepes III, sovrano della Valacchia noto come l’Impalatore, la figura storica su cui Stoker modellò il suo Dracula. Un romanziere anarco-capitalista, Thomas M. Sipos, qualche anno fa ha composto perfino una satira di stampo orwelliano, Vampire Nation, dove è di scena un Dracula-Ceausescu, e dove l’apparato burocratico dello Stato totalitario prospera succhiando gli animal spirits dell’eroe-imprenditore. Ma sappiamo bene che fine ha fatto anche quel vampiro. Con questa carriera spaventosa alle spalle, si capisce bene perché Dracula abbia voluto abbandonare l’agone politico per ripiegare sul privato. Non possiamo biasimarlo se condivide le predilezioni della generazione post-1989: un confuso ma persistente flirt con il sacro e l’oltretomba, un ritorno al mondo intimo degli affetti e delle passioni. Parassita lo è ancora, ma sul suo stesso cadavere: vampirizza la tradizione narrativa e iconografica che lo ha descritto, in una continua “contaminazione” che più che con la peste ha a che fare con l’ironico e ammiccante pastiche postmoderno dei generi.
Ancora una volta, quindi, Dracula si rivela capace di incarnare lo spirito del tempo, il famigerato Zeitgeist. Tuttavia, si chiedeva già Herder, non è chiaro se lo Zeitgeist sia una moda o «un revenant di antiche tombe» (Geist, in tedesco, è anche «spettro»), una brezza leggera che increspa la superficie del presente o un vento possente che spira dalle profondità ancestrali. Nel caso dei vampiri, creature che emergono di continuo dalla loro tomba, il dilemma non ha risposta.
Articolo uscito sul Riformista il 25 novembre 2008
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