De Martino, l’Occidente e la “terra del rimorso”
Ben prima che il saggista francese Pascal Bruckner parlasse del «singhiozzo dell’uomo bianco » e del masochismo degli europei, desiderosi di addossarsi il “fardello” di tutte le colpe del mondo, ci aveva pensato Ernesto de Martino a metterci in guardia sugli eccessi dell’autofustigazione culturale. E già, perché l’Occidente non è tanto la “terra del tramonto”, dell’occasus, come vanno ripetendo da decenni le prefiche heideggeriane e spengleriane a suon di etimologie civettuole. È piuttosto la “terra del rimorso”, il luogo di una contrizione e di una flagellazione interminabili. Certo, quando il grande antropologo nato cent’anni fa coniò quest’espressione, nel suo studio sul tarantolismo pugliese, si riferiva a uno scenario ben più ridotto: al Salento, alla Puglia, tutt’al più al Meridione d’Italia. Ma la «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito », a ben vedere, è una formula appropriata per l’Occidente divorato dalle sue colpe storiche come Prometeo dalla leggendaria aquila. E impegnato in un inesausto «pianto rituale» di espiazione, via via degradato a piagnisteo.
Perché, non c’è dubbio, a furia di fustigare l’etnocentrismo va a finire che si diventa etnocentrifughi. Forse un giorno appenderemo nelle aule scolastiche il curioso atlante che i seguaci di André Breton s’inventarono negli anni Venti, Le Monde au temps des surréalistes. Un planisfero noncurante dei parametri geografici, ridisegnato secondo il capriccio primitivista dei «disfattisti d’Europa»: la Francia dei Lumi era ridotta a un punto, la sola Parigi; di tutta l’Europa non restavano che la Germania e l’Austria della Romantik e di Freud; scomparivano gli Stati Uniti, fagocitati tra il Messico e il Canada. L’Isola di Pasqua, con i suoi moai, i grotteschi mascheroni di tufo, appariva invece quasi più vasta del Vecchio Continente. Una nemesi carnevalesca della boria dell’Occidente colonialista, razzista, imperialista, spavaldamente persuaso della propria superiorità sugli altri popoli.
A questa (doverosa) nemesi la tradizione antropologica, che tanto deve alla temperie surrealista, ha offerto un contributo intellettuale immenso. Ha insegnato a ridimensionare l’albagìa dei bianchi, ha riscattato i popoli non europei dallo stigma di “barbari” o “selvaggi”, ne ha illustrato i sistemi di pensiero e i costumi spesso raffinatissimi.
Il guaio è quando si passa il segno, e dal sano apprezzamento delle altre civiltà si arriva alla denigrazione sistematica della propria, trasformando la mappa del mondo reale nel masochistico atlante dei surrealisti. Ernesto De Martino, che pure ha dato un contributo di prim’ordine all’impresa di demolizione della boria eurocentrica, ne aveva tuttavia avvertito per tempo i pericoli. Che erano quelli di spazzar via per intero l’edificio dell’Occidente, in modo irresponsabile e indiscriminato. C’è un saggio di spaventosa chiaroveggenza, Promesse e minacce dell’etnologia, che risale al 1962 ma che attinge largamente a uno scritto di dieci anni prima. Se non sembra scritto oggi, poco ci manca. Non lo si cita spesso, non è certo tra le pagine predilette di certi lettori «etnocentrifughi » di De Martino, ma è uno straordinario documento di «battaglia delle idee» che prende di mira uno dei bersagli più ricorrenti del dibattito contemporaneo: il relativismo culturale estremo, l’idea che le civiltà siano disposte su un piano di assoluta parità, che il progresso sia una chimera, che il rapporto tra le culture non sia in nessun caso affare di gerarchie ma sempre e solo di “scarti differenziali”. Una visione che il “quasi gemello” d’Oltralpe di De Martino, Claude Lévi-Strauss, aveva contribuito a forgiare, soprattutto nel saggio Razza e storia (1952) scritto su sollecitazione dell’Unesco, che gli valse i rimproveri di Roger Caillois.
Per De Martino la grande minaccia dell’etnologia è quella che si realizza allorché «il rapporto con l’etnos si dissolve in un alquanto frivolo défilé di modelli culturali, sospinti sulla passerella della “scienza” da un frigido apolide in funzione di antropologo infinitamente disponibile verso i possibili gusti culturali». Una grande sfilata di moda – neppure una gara di bellezza con voti e palette – in cui l’unico elemento d’interesse è la diversità delle civiltà, da ammirare senza sognarsi di giudicarle. Tutte, tranne una: la nostra, a cui spetta a fine sfilata un inappellabile pollice verso. In tutto questo De Martino riconosceva un venir meno al compito storico dell’Occidente.
«Mettere in causa il sistema nel quale si è nati e cresciuti non significa essere indefinitamente disponibili per rinunzie incaute e disinvolte», proseguiva De Martino. «Si “mette in causa” un certo patrimonio per meglio possederlo e accrescerlo, per distinguerne chiaramente l’attivo dal passivo, non per liquidarlo e annientarlo leggermente. Accade invece che, nel vuoto della coscienza storica delle scelte culturali dell’Occidente, l’incontro con l’etnos diventi una occasione di più per cancellare indiscriminatamente tali scelte, e soprattutto quella “scelta della ragione” che, attraverso i momenti storici della nuova scienza, dell’illuminismo e dello storicismo, ha reso possibile il configurarsi di un compito dell’uomo di scienza, e in particolare di un compito dell’etnologo ». Questa “scelta della ragione” per De Martino, marxista ben poco chiesastico, andava rilanciata con convinzione, per«restituire alla tradizione occidentale, su vie radicalmente diverse da quella dello sfruttamento borghese, del colonialismo e del missionarismo, il passo eroico del suo destino unificatore ».
Ernesto de Martino è stato un pensatore strano, inclassificabile, in virtù della sua curiosità onnivora. Di formazione crociana, diede spazio nel suo pensiero agli apporti più disparati: il marxismo e la psicopatologia, l’esistenzialismo e la fenomenologia di Heidegger, Sartre e Jaspers. Proprio per questo è stato così facile per molti «appropriarsene », spacciandolo di volta in volta come pensatore della “crisi” o come etnorelativista. Ma il caleidoscopio di letture (e di gerghi) di cui De Martino si giovò non lo distolse da una fedeltà di fondo alla tradizione illuministica e umanistica. Certo, tra i compiti dell’Occidente l’antropologo annoverava «il tramonto della determinazione borghese della civiltà occidentale, la liberazione dei popoli coloniali e semicoloniali, la unificazione socialista del nostro pianeta, la conquista degli spazi cosmici». Nondimeno, a conti fatti, la via del progresso gli sembrava passare sempre per il Vecchio Continente: «Malgrado gli elementi negativi, vistosi e spesso atroci, con cui la crisi si manifesta e si minaccia», suggeriva, «le alternative vitali che impegnano oggi il mondo si chiamano ancora Europa».
Articolo uscito sul Riformista il 30 novembre 2008
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