La via italiana (e padana) al politicamente scorretto
L’idea che le cose brutte diventino meno brutte se le si ribattezza con un nome grazioso, architrave del politically correct americano, non ha attecchito più di tanto in Europa. O almeno così sosteneva Robert Hughes in un libro dei primi anni Novanta, La cultura del piagnisteo: «In Francia nessuno ha pensato di ribattezzare Pipino il Breve Pépin le Verticalement Défié, né in Spagna i nani di Velázquez danno segno di diventare las gentes pequeñas». Hughes credeva che il politicamente corretto fosse figlio di un’abitudine tutta americana alla circonlocuzione cortese. Di certo sottovalutava la nostra lunga consuetudine con le caritatevoli astruserie dell’eufemismo burocratico, dove il povero diventa impossidente e il malato cronico lungo degente. E forse avrebbe potuto dare un’occhiata a un vecchio film di Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina, in cui Gian Maria Volonté, direttore di un giornale benpensante, impartisce a un suo redattore una lezione di linguaggio giornalistico, smontando parola per parola il titolo che questi aveva dato al suo pezzo: Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli. Il disperato si addolcisce in drammatico, il disoccupato in rimasto senza lavoro e il padre di cinque figli – siccome il poveretto è calabrese – diventa semplicemente un immigrato, «una parola sola che contiene implicitamente il disoccupato e il padre di cinque figli ma dà anche un’informazione in più».
Continua a leggere su La Lettura. Articolo uscito l’11 dicembre 2011, con il titolo Le intolleranze linguistiche italiane: falsi eufemismi e vero razzismo.
Dire che l’architrave del politically correct americano e’ “l’idea che le cose brutte diventano meno brutte se le si ribattezzano con un nome grazioso” vuol dire presentare esclusivamente la versione caricaturale di un progetto progressista molto serio, che in parte, mi sembra, tu stesso poi difendi nell’articolo.
Una discussione su un argomento simile non la si affronta in poche righe, e non sono un’esperta, ma suggerisco ai lettori interessati all’argomento:
1) per coloro che leggono l’inglese, leggere la pagina di wikipedia puo’ iniziare a dare un’idea del senso del progetto (al di la’ del nome) e delle polemiche relative al nome: http://en.wikipedia.org/wiki/Political_correctness (vedi soprattutto la sezione “as a linguistic concept” che fa riferimento brevemente agli studi di psicologia cognitive che motivano in parte questo prgetto)
2) per coloro che preferiscono l’italiano, un libro divertente e illuminante e’ “Il razzismo e’ una gaffe: eccessi e virtu’ del politicamente corretto” di Flavio Baroncelli: http://www.donzelli.it/libro/247/il-razzismo-e-una-gaffe
Ma una cosa che ci tengo a dire e che dovrebbe essere ovvia ma a quanto pare non lo e’: uno puo’ non essere d’accordo su alcune applicazioni di un principio, ma cio’ non implica che il principio sia scorretto.
E soprattutto mi fa sempre imbestialire che qualcuno dica “eh, ma che sara’ mai se uno usa handicappato per dire imbecille o se dico muso giallo a uno che viene dal Giappone, mica c’ho nulla contro gli handicappati o i giapponesi, dico tanto per dire”. Ma lo vogliamo capire che le intenzioni non hanno nulla a che fare con gli effetti?
Come dice bene questo giornalista inglese (su wiki): “The phrase “political correctness” was born as a coded cover for all who still want to say Paki, spastic or queer, all those who still want to pick on anyone not like them, playground bullies who never grew up. The politically correct society is the civilised society, however much some may squirm at the more inelegant official circumlocutions designed to avoid offence.”
Ma non si tratta solo di evitare di offendere (che comunque e’ importante. E’ facile sottovalutare questo aspetto quando si fa parte di un circolo privilegiato di umanita’ per cui gli epiteti discriminatori e offensivi a malapena esistono). Si tratta di contribuire a modificare una realta’ ingiusta che un certo tipo di linguaggio sottilmente e inavvertitamente rinforza continuamente.
Le parole sono importanti, per cosi’ tante ragioni.
natadicorsa
dicembre 14, 2011 at 3:37 PM
Infatti, cito la sintesi caricaturale di Hughes, ma per avere un’imbeccata per parlare dell’Italia. Ogni articolo di giornale dovrebbe avere, sotto il titolo, la dicitura: “Le cose sono più complesse di così”!
unpopperuno
dicembre 14, 2011 at 4:30 PM
@natadicorsa
amen – grazie di questa risposta.
DanteA
dicembre 14, 2011 at 5:14 PM
sono rimasta colpita la scorsa estate nel mio viaggio negli Usa, dalla morbosa attenzione che i miei parenti americani prestavano al mio modo di parlare. i neri adesso si chiamano “african american”, così mi hanno informato, guai a chiamarli neri, figuriamoci negri. tutta questa fissazione sul linguaggio si accompagna ad una eccessiva attenzione alla cortesia formale che si condensa nel “you are welcome” che ossessivamente ripetono, sarebbe anche una bella cosa se non fosse che si percepisce sotto sotto una violenza latente e repressa, vedi il film “Carnage” in cui si rappresenta bene tutto questo .
jonuzza
dicembre 14, 2011 at 9:21 PM
Non si tratta di volersi divertire a dire “negro” e “frocio”. Il succo del discorso sta nelle parole di Hughes con cui giustamente finisce l’articolo: “I teppisti che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay”.
Il che non vuol dire che le cose non possano cambiare, e che le parole non possano aiutare (o contrastare) questo cambiamento.
Attenzione però a credere che la “civilised society” possa eliminare l’aggressività e la violenza connaturate agli esseri umani, come a qualsiasi specie animale (e che hanno – o hanno avuto – precise funzioni nella conservazione della specie).
Altrimenti si casca nel tipico errore “progressista” di considerare l’umanità come un ente esclusivamente culturale (o, peggio mi sento, razionale), e dunque infinitamente modificabile e perfettibile (cosa che magari è, ma sulla stessa scala temporale dell’evoluzione biologica).
Saluti.
Myo Dyo
dicembre 14, 2011 at 11:27 PM
cmq vorrei dire che io non sono un’espatriata squattrinata, ma una migrante diversamente ricca
smilablomma
dicembre 15, 2011 at 1:06 am