Guido Vitiello

Il pellegrino ipocondriaco

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Ad averci i soldi, tanti soldi, correrei a comprare i diritti cinematografici di un libro appena uscito. State a sentire che bella favola: c’era una volta un trentenne ipocondriaco, rimuginante sull’infinita vanità del tutto, che si mise a bussare alla porta delle religioni più varie in cerca di salvezza e di consolazione. “Ma questo film l’abbiamo già visto!”, diranno i miei lettori. “È quello dove Woody Allen, convinto di avere un tumore al cervello, prova a farsi cattolico (senza fortuna), poi Hare Krishna, attratto dall’idea della reincarnazione, ma vuole garanzie che non tornerà in terra come alce o armadillo”. E invece no che non l’avete visto: è un altro film. Scordatevi Allen, e fate conto che a compiere il giro di consultazioni spirituali sia il buon avvocato della Signorina Felicita di Gozzano, anzi il suo capovolgimento perfetto: lì c’era uno spirito corroso dallo spleen che vedeva come un miraggio irraggiungibile la dolcezza della vita semplice; qui c’è un timido eroe che alle felicità crepuscolari pare predestinato per natura e per indole, se non fosse che si è messo in testa che deve fare il letterato, e che il letterato ha da essere inquieto: per lui, il gozzaniano “quello che fingo d’essere e non sono” funziona esattamente alla rovescia. La sua saggia Signorina Felicita, capace di domare le chimere letterarie prima che lo sbranino, l’ha pure trovata, e sposata. Com’è finito allora a fare il giro delle sette chiese, anzi settanta volte sette? Cosa lo ha spinto a setacciare tutta Roma in cerca di santi, santini e santoni? Perché tutti (o quasi) li ha provati. Gli Hare Krishna (non quelli di Central Park, quelli di piazza Navona), che gli hanno dato la sensazione inebriante di essere “uno splendido, puro, inoffensivo deficiente”; dei neopagani in odore di tradizionalismo evoliano, da cui si defila alquanto turbato; dei cordialissimi raeliani, il cui simbolo, che infrange tutte le sacre tavole del marketing (una svastica inscritta nella stella di David), testimonia se non altro una cristallina buonafede; dei liberi pensatori paranoici, più settari dei settari; degli evangelici sospettamente pragmatici.

Risposte non ne trova, o ne trova troppe, ma è certo che lungo il tragitto inciampa in alcune verità tutt’altro che ovvie: che una religione la si combatte solo con un’altra religione uguale e contraria; che Roma, la Roma dei Papi, è la città più atea e strafottente del mondo; che l’idea per cui la morte è la fine di tutto è quasi consolante, se paragonata alle angosce di cui deve farsi carico il credente in articulo mortis. D’altro canto, la scintilla originaria di questo reportage-confessione è proprio qui: il nostro “pellegrino ipocondriaco”, prima di mettersi in viaggio, ha smesso di fumare, e questo, a farla breve, lo ha costretto a riaprire il dossier delle cose ultime, morte e immortalità. Detta così suona balorda, ma aspettate: si era fatto fumatore come altri si fanno francescani, per sequela e imitazione di un modello venerabile: nel suo caso, Francis Scott Fitzgerald, apparsogli da adolescente su una copertina di L’età del jazz: “Avevo creduto, a torto o a ragione, che l’anima fosse proprio il fumo, quel ricciolo azzurro che gli guarniva come un anello le dita, lì in foto; e quell’immagine, mi dissi, sì, quell’immagine di un morto partecipava a qualcosa di eterno” (già immagino la scena del mio film: il nostro eroe se ne sta lì ad ammirare la copertina del libro attraverso una vetrina, campo-controcampo, come Belmondo davanti al manifesto di Bogart in Fino all’ultimo respiro).

Tolte le sigarette-feticcio, svelato l’inganno: “Se fossi solo uno spirito semplice, che si è voluto complicare a forza!”. Questo si legge a pag. 79, e il recensore, con l’aria di chi la sa lunga, sta lì pronto a chiosare: ma questo era il tema del primo romanzo del nostro eroe ipocondriaco, Piccola serenata notturna (Marsilio), su un sempliciotto abruzzese sballottato tra le avanguardie del primo Novecento, trascinato a Praga controvoglia perché sperimenti un’angoscia kafkiana che proprio gli è estranea… A pag. 80, però, l’autore se lo dice da solo, perché è – Croce lo diceva proprio di Gozzano – il miglior critico di sé stesso. E dunque ci lascia senza altre parole, se non queste: il libro si chiama L’eternità stanca, lo ha pubblicato Laterza. E i dialoghi suonano così naturali che ad averci i soldi – sempre lì si torna – per la parte della saggia moglie Claudia scrittureremmo la saggia moglie Claudia; e per la parte dell’autore e protagonista, Errico Buonanno, scrittureremmo Errico Buonanno.

Articolo uscito sul Foglio il 30 maggio 2012 con il titolo Storia di un pellegrinaggio ipocondriaco tra i culti più strani di Roma

Written by Guido

giugno 3, 2012 a 2:55 PM

2 Risposte

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  1. my best compliments , goodbye !

    driuorno

    giugno 4, 2012 at 8:58 PM

  2. Reblogged this on BABAJI.

    driuorno

    giugno 4, 2012 at 8:58 PM


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