Elémire Zolla, scrittore (1926-2002)
Fanno festa Berlicche e Malacoda, i diavoli tentatori di C.S. Lewis, quando un cristiano in preghiera dà prova di credere che il Padreterno sia collocato in qualche punto nello spazio, diciamo pure “su in alto, all’angolo sinistro del soffitto della camera da letto”, o meglio ancora dov’è appeso il Crocefisso: è il segno certo che sta adorando un idolo, un fantoccio mentale, ed è tanto di fatica satanica risparmiata. Ma finché si resta ancorati al mondo di quaggiù, piaccia o meno, la gravità è la nostra signora, le coordinate spaziali la nostra condanna. Sarà pur vero che ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso, come insegna la tavola smeraldina; tuttavia quando si è bassi e piccini, e ciò che sta in alto sta davvero in alto, e per giunta non si dispone di uno scaletto, non c’è sapienza ermetica che possa sottrarci a un sentimento di soggezione. Così, quando da bambino me ne stavo a fissare per ore la biblioteca paterna, c’era un libro che più degli altri m’incuteva timore, collocato in uno scaffale abbastanza alto perché io non potessi acciuffarlo, ma abbastanza basso da permettermi di leggere, sul dorso un poco ingiallito, un autore e un titolo dal suono arcano, che al solo scandirli a fior di labbra istigavano un terrore reverenziale: Elémire Zolla, Eclissi dell’intellettuale. Da dove veniva, quel nome altero, a che lingua apparteneva, e come si doveva pronunciarlo? E quali idee si agitavano sotto quel titolo cupo, perentorio? Non avevo modo di saperlo. A Ermete dispiacendo, io stavo in basso e quel libro stava in alto, e lì sarebbe rimasto nella mia geografia mentale, anche quando crebbi a sufficienza da raggiungerlo, prenderlo tra le mani, dispormi finalmente a leggerlo. La mia scalata di alpinista ciabattone non era certo finita lì: mi occorse allora l’imbragatura dei lessici e delle enciclopedie, la corda e il picchetto delle annotazioni e delle riletture, per non dire delle petulanti richieste di lumi all’alpinista di casa che mi aveva preceduto. Quanto a lui, Elémire Zolla, sembrava dispensare le sue parole da qualche picco inarrivabile, sovranamente noncurante della fatica degli arrampicatori. Ne trovai beffarda conferma quando, anni dopo, lessi l’esordio petrarchesco di Che cos’è la Tradizione, il libro che Zolla compose come un esorcismo dopo i fatti, per lui sciagurosi, del Sessantotto: “Ascendiamo il monte Ventoso della storia e guardiamo il disegno che si rivela da quella grande altezza; i particolari non si discernono più”.
Presto capii che per Zolla il problema non era tanto chi abitasse in alto e chi in basso, ma piuttosto che l’alto e il basso fossero, dal nostro mondo, congedati con un solo gesto. Nel gennaio del 1966, sul Giornale d’Italia, comparve un fondo intitolato “La cattiva coscienza delle parole”, a firma Bernardo Trevisano – pseudonimo che Zolla condivise, all’occasione, con Cristina Campo. Zolla ragionava sull’onnipresenza delle metafore orizzontali: “ampi” scambi di pareri, “vasti” poteri, campi d’indagine che si “allargano”, orizzonti che si “ampliano”. Il gallo segnavento posto sul pinnacolo del mondo moderno, come un animale-congegno totemico, imponeva di pensare a destra o a sinistra, secondo le contrade ideologiche; a est o a ovest, secondo le cortine della strategia politica; avanti o indietro, secondo il metro del progresso e dell’arretratezza. Dell’alto e del basso quasi non si serbava memoria. Il tema non era nuovo tra i pensatori che, faute de mieux, chiameremo antimoderni, e alcune variazioni su di esso le composero uomini cari allo Zolla di quella stagione: Michele Federico Sciacca aveva scelto la felice immagine degli arieti che incocciano contro la verticale; Hans Sedlmayr, con mano più greve, aveva lamentato la decadenza “orizzontale” dell’architettura moderna; Marcel de Corte – il tomista che Zolla fece tradurre nella collana che dirigeva, per Borla, con Augusto Del Noce – descrisse un mondo in cui gli uomini bramano di vedersi rifratti nel prisma degli sguardi altrui, ricercando quella che La Fayette chiamava “la deliziosa sensazione del sorriso della moltitudine”. Era il regno orizzontale del fianco a fianco, del gomito a gomito, e dunque dell’invidia di tutti contro tutti. L’unico giudizio da tenere in conto era il giudizio dei contemporanei. Recedeva lo sguardo severo e accusatore degli Antichi, lanciato dagli scaffali impervi della biblioteca.
Qualunque idea si abbia sulla materia del contendere – la civiltà moderna, i suoi guasti e i suoi trionfi –, la disputa tra gli orizzontali e i verticali dà l’occasione per aggiornare una distinzione antica. Di qua l’intellettuale Don Chisciotte: la sua vita è l’imitazione di un modello alto e distante, il leggendario Amadigi di Gaula, uno dei più perfetti cavalieri erranti, anzi “il solo, il primo, l’unico, il maestro e il signore di tutti quelli che vi furono su questa terra”; a malapena percepisce la presenza dei contemporanei, dai quali d’altro canto non si aspetta lode o biasimo. E se questo lo espone alle volte a prender fischi per fiaschi, mulini a vento per giganti, catinelle di barbiere per elmi, è pur vero che lo tira fuori da quella palude di risentimenti e adulazioni in cui affonda qualunque società letteraria. Di là, all’antipodo perfetto, c’è un intellettuale i cui archetipi letterari dovremmo cercare piuttosto tra i personaggi che abitano il mondo di Proust: è il vanitoso ossessionato dai contemporanei, compagni di mondanità e di frequentazioni, di cui avverte a ogni passo, a ogni riga il fiato sul collo; questi imita, su questi si misura, che sia per immettersi nel viale affollato dei dibattiti all’ordine del giorno e qui darsi allo “struscio”, che sia per distanziarsene rincorrendo la chimera dell’originalità, che tradisce la stessa morbosa, servile preoccupazione per gli altri.
Elémire Zolla è stato una nobile approssimazione al tipo donchisciottesco. E anche se Grazia Marchianò, che con lui divise l’ultima parte della vita, lo ritrasse nella biografia intento a leggere, riverso sulla schiena, con attorno una compagnia di gatti giocherelloni; anche se Pietro Citati, in un articolo scritto poco dopo la morte, ha ricordato come sfigurasse i libri segnandoli a penna, quasi sconciandoli, io per tutta l’adolescenza ho immaginato che Zolla si accostasse ai suoi autori più riveriti allo stesso modo di Machiavelli, in panni reali e curiali: “et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini”. Se è vero che si scrive tenendo fisso nella mente il fantasma di un lettore, quale destinatario aveva in mente Zolla? Di certo non qualcuno che camminasse nel suo stesso mondo. Ogni sua pagina pareva offerta ai suoi Amadigi di Gaula, che fossero i sapienti vedici, i pitagorici, gli alchimisti, gli sciamani o gli eruditi cinquecenteschi: non sembrava curarsi che del loro giudizio. Man mano che ci si allontana dai saggi polemici degli anni Cinquanta e Sessanta, dai sarcasmi contro l’uomo-massa che gli valsero un epigramma di Flaiano (“Sia bene inteso / che a Elémire Zolla / preferisco la folla”), dalle sue pagine scompaiono perfino i nomi e le generalità dei contemporanei, specie dei connazionali. Le poche eccezioni sorprendono e stonano, come i sarcasmi su Pasolini in uno dei suoi ultimi libri, Lo stupore infantile. L’esilio dal proprio tempo Zolla lo preparò con l’antologia dei Mistici dell’Occidente, lo intraprese con decisione nel Sessantotto (anno in cui uscì Le potenze dell’anima), lo rese irrevocabile con Le meraviglie della natura, nelle cui prime pagine si legge: “Un tempo alcuni uomini si isolavano nella solitudine a meditare lungi dallo strepito, dal vento della fama, e così si sottraevano alla sua dominante magia. Oggi è diffamato quest’unico scampo alla servile suggestione e tutti si ritrovano a illudersi d’esser liberi perché trascelgono fra cose famigerate; l’astuzia poi di chi proponendole impone le comuni alternative è chiamata necessità storica”.
Dalla storia come necessità e ricatto Zolla procurò di affrancarsi con tutti i mezzi, così come dagli amministratori della fama: “Da ragazzo seguivo con letture millimetriche e commentanti”, raccontò; “via via che la vita si è dipanata, rendendomi più avvisato forse, ho letto di corsa i maestri che l’organizzazione editoriale parigina ha divulgato alla sua maniera, così efficiente”. Sartre, “un inutile ingombro”; Blanchot, “mi sembrò che assiepasse vaniloqui”; Foucault, “la sua filosofia era penosa”. Derrida, accolto in Europa e in America, lo incuriosì “men che niente”: “In Italia i filosofi ufficiali bramano di invitarlo, credo che avvenga altrettanto in Africa”. Si sentì circondato da quella che considerava, spavaldamente, una “congiura degl’inetti”. Questo non gli impedì di tener drizzate le sue antenne. Si ricorda a volte che i saggi di Eclissi dell’intellettuale portarono nel nostro paese Adorno e i francofortesi (sebbene, sotto le apparenze, Simone Weil fosse un’ispirazione ben più presente). Meno spesso si ricorda che Zolla introdusse prima di ogni altro Marshall McLuhan, offrendo un resoconto accurato del suo pensiero che si fondava su un saggio sfrenatamente ellittico come Myth and Mass Media (McLuhan ricambiò l’attenzione: Zolla è il solo italiano che cita). Non c’era dunque di che stupirsi quando, nei primi anni Novanta, si appassionò ai mondi simulati dell’informatica e agli usi mistici e sciamanici che lasciavano intravedere – ma il casco della Realtà Virtuale fu forse il catino di barbiere che scambiò per un cimiero.
Rodolfo Wilcock gli dedicò una poesia, Nella colonia, dove lo definiva “un bianco tra i negri / che ha i parenti in un’Europa ideale”. I negri, o i nativi, erano i contemporanei imbarbariti, “i quali a volte l’hanno maltrattato / appunto perché non capivano chi fosse”. Il suo sguardo volto al passato, che pure trasfigurava tutto in letteratura, non era appannato dalle nostalgie più meschine, non aveva tornaconti sentimentali: chi data la decadenza della civiltà dagli ultimi scampoli della propria gioventù merita condiscendenza; chi crede che il mondo abbia cominciato a inabissarsi, che so, dal tempo di Plotino o dei Celti, foss’anche un pazzo, impone l’ammirazione. È ingeneroso quanto facile – e, come tutto ciò che è facile, lo si è fatto volentieri – ironizzare sui vagheggiamenti di Zolla per le “civiltà corali” di un passato remotissimo, o sulla sua lingua un po’ artificiale, foggiata su un ideale canone letterario e refrattaria all’idea stessa di un pubblico (il suo stile suonava quasi impacciato, al tempo stesso gnomico e impaziente, prima che si sciogliesse e illimpidisse nelle ultime opere); è facile, infine, deridere la sua idea di Tradizione o la sua difesa dell’alchimia contro la scienza moderna. Così facendo, però, si perde di vista l’essenziale: il vantaggio conoscitivo di chi abbia interrotto i suoi commerci con i moderni e abbia posto la sua specola fuori dal nostro mondo. Solo fingendo a sé stessi di avere “parenti in un’Europa ideale”, o di appartenere, per elezione, a un’invisibile famiglia di sapienti pitagorici, di mistici dell’alto medioevo, di alieni sbarcati da un pianeta remoto, si guadagna il punto d’osservazione adeguato per gettare sul proprio tempo uno sguardo non impaniato nelle vischiosità delle appartenenze o delle ideologie, e osservare i propri simili come “un bianco tra i negri”: “In un tiepido bagno solvente s’aggirano gli uomini massa, immagini e suoni ne riproducono il lavorio fantastico e fantasticano per loro, fuori di loro, e dentro di loro (…) Niente incastella, dà travatura e forma a tali vite simili a otri gonfi di liquame cadaverico, di fantasticheria. (…) Se ci si guarda attorno in un qualunque luogo si vedono le torme dei sonnambuli tutti atteggiati in modo incongruo, con una qualche smorfia sempre ripetuta e infine pietrificata sul volto. L’uno vi ha dipinti dolori atroci sopportati con fierezza, l’altro una truculenza che maschera la bonarietà, l’altro una sufficienza clemente dinanzi a insistenti omaggi; paura, furbizia, supplica sono il lembo invisibile del sogno, meglio evidente nella piega delle bocche (…) I corpi obbligati a comporre i geroglifici dell’immaginazione intristiscono come schiavi di miniera”. Queste frasi, in cui risuonano le descrizioni dei monaci irrequieti della Nube della non conoscenza e le osservazioni di civiltà extraterrestri di un Robert Heinlein o di altri scrittori di fantascienza, sono tolte dal capolavoro di Zolla, Storia del fantasticare. Gli diedi la caccia per anni, tra le librerie del centro di Roma: era la mia balena bianca.
Per ogni libro di Zolla, a dire il vero, potrei raccontare un’impresa argonautica. Ricordo il rammarico dell’antiquario da cui presi Le origini del trascendentalismo, che era rimasto sullo scaffale per trent’anni. Non credeva che qualcuno potesse, un giorno, volerlo: me lo porse con uno sguardo afflitto. Ricordo la fatica che mi costò mettere insieme i Mistici dell’Occidente nell’edizione Bur, collezionando i volumetti come figurine di un album. Ricordo le vie avventurose per cui giunsi ai Saggi di etica e di estetica, opera prima di uno Zolla appena ventenne, e la pena con cui rinvenni l’ultimo tassello che mi mancava, i Tre discorsi metafisici. Oggi, se dovessi suggerire a un altro adolescente stralunato un itinerario nell’opera di Zolla, saprei guidarlo con mano sicura a qualche pagina meno nota su cui fermarsi. Le prime antologie, anzitutto: dei moralisti moderni, di Sade, più ancora l’antologia della psicoanalisi, che sembrava composta da un anacoreta, e che ordinava gli scritti di Freud e seguaci secondo l’antica griglia dei peccati capitali; l’introduzione a La colonna e il fondamento della verità di Florenskij, e la prefazione a L’età del jazz di Fitzgerald; le pagine su Bomarzo, in un vecchio numero del Mondo di Pannunzio; lo strano racconto dall’antologia L’amore in Italia. E infine la pietra filosofale, l’opera che non troverà mai: quel trattato più volte vagheggiato, mai scritto, sull’arte della truffa. Si può ricostruirne la sagoma congetturale unendo in costellazione alcuni passi, fin da Minuetto all’inferno, il romanzo che Zolla scrisse ventenne e malato di tisi.
Non ho mai incontrato Elémire Zolla, l’uomo che ha sovrastato come una nube i miei pensieri dal giorno in cui fui abbastanza alto da pescare nello scaffale paterno Eclissi dell’intellettuale. Era come un maestro che si ama e di cui si ha cura di tenersi informati, a distanza, ma che si ha ritegno ad accostare. Fui a lungo combattuto quando seppi dove rintracciarlo a Montepulciano, in Toscana: mi accontentai, per un po’, degli aneddoti che mi portava un amico poliziano, sugli abitanti del luogo incuriositi e intimoriti da quella strana figura avvolta in un mantello. L’annuncio della sua morte, nel 2002, sciolse ogni dilemma, revocò ogni proposito. Provo oggi a immaginarlo, quel dialogo mancato. Gli avrei detto che sono stato il più accanito lettore delle sue pagine, come lui, senza saperlo, lo è stato delle mie: per anni tutto ciò che ho scritto era una lettera a Elémire Zolla, o spedita di nascosto da lui, anche quando ho scelto, infine, vie così lontane dalle sue. Gli avrei detto che grande era il mio debito nei suoi confronti, ma che non meno grande era il suo nei miei: perché, per procacciarmi tutti i libri di cui mi faceva innamorare, mi sono più volte ridotto in povertà.
Un’ombra di questo immaginario incontro l’ho inseguita i primi di maggio, nel cimitero antico di Montorio. C’era una lastra tombale di travertino, una piccola teca piena di amuleti e appannata dal vapore, le parole: “Elémire Zolla, scrittore, 1926-2002”. Per la prima volta, ho pensato, io ero in alto, lui in basso. Ma non mi è mai riuscito di abbracciare in una veduta aerea la sua fisionomia mentale, come la mappa balinese del paesaggio interiore che riprodusse in Aure: mi resta l’ammirazione cavalleresca per un Amadigi su cui non cesserò mai di misurarmi, in qualcuna delle mie vite immaginarie.
Articolo uscito sul Foglio il 26 maggio 2012 con il titolo La folla di Zolla.
Ma per cortesia…
I flauti e i campanielli
giugno 8, 2012 at 9:27 PM
Per cortesia cosa?
unpopperuno
giugno 8, 2012 at 10:39 PM
grazie per averlo trascritto. appena uscito sul Foglio ne avevo comprate tre copie per regalarle. il migliore omaggio a Zolla apparso da anni. Grazie.
matteo_
giugno 9, 2012 at 7:48 am
La ringrazio signor Vitiello per il suo bellissimo articolo su Zolla che avevo letto sul Foglio,
Rimango in attesa di altri suoi lavori. Cordialmente.
ANDREA PAPETTI
giugno 14, 2012 at 3:11 PM
Bellissimo articolo. E bello anche “I turbamenti di un giovane bibliomane”, che ho preso in prestito ieri in biblioteca. Bravissimo. La prossima volta compro il libro.
fabio
giugno 23, 2012 at 9:48 PM