Ho una banda che mi suona nella testa. Sui tormentoni
Forse Massimo Troisi non aveva tutti i torti a suggerire che la rovina dei giovani è stata il grammofono. E dopo il grammofono, la radio. E dopo la radio, la tv. Quando Mina, nel 1967, cantava alla Rai: “Ho una banda che mi suona nella testa, che mi suona così forte che se vieni più vicino puoi ascoltarla pure tu: zum zum zum”, una persona di senno avrebbe dovuto chiamare il pronto intervento psichiatrico. In altre epoche, chissà, la si sarebbe affidata alle cure di uno sciamano, o di un esorcista, qualcuno insomma versato nell’arte di cacciare gli spiriti. E invece niente: la posseduta poté cantare fino in fondo la sua canzone, che per inciso si apriva con il proverbiale “sarà capitato anche a voi”. In effetti, hypocrite auditeur, era capitato a tutti, e la pandemia nei decenni a venire non avrebbe fatto che estendersi.
Per i motivetti che ti si piantano in testa e non vogliono sapere di uscirne i tedeschi hanno un bel nome: “Ohrwurm”, verme uditivo. In Francia, Boris Vian li battezzò “tubes”. In Italia, tormentoni. Theodor Reik, amico e discepolo di Freud, li studiò nel libro The Haunting Melody, dove le melodie ossessionanti erano per lo più valzer e capricci viennesi. Oliver Sacks ne ha scritto, più di recente, in Musicofilia. Ma negli ultimi anni quello dei tormentoni è diventato, soprattutto in Francia, un tema ricorrente di filosofia e sociologia pop. Prima è stata la volta di Peter Szendy, che in Tubes. La philosophie dans le juke-box tentava di sbrogliarne la matassa con l’arcolaio marxiano (e adorniano) della merce-feticcio: invano. Oggi torna sul tema Emmanuel Poncet, ex cronista musicale di Libération approdato a GQ. Il suo Éloge des tubes (NiL) comincia ribattezzando i tormentoni “virus sonori”, nel duplice senso epidemico e informatico, dato che la nostra corteccia è ormai un “iPod cerebrale”. Il fenomeno non è nuovo – nei manoscritti settecenteschi di musica floclorica scozzese si parla del pipper’s maggot, il “baco del suonatore di cornamusa” – ma ha tutt’altra scala da quando siamo diventati dei “juke-box umani”.
La nozione chiave per Poncet è quella di “hook”, l’elemento (musicale o verbale) a cui l’ascoltatore abbocca come un pesce all’amo. Come dev’esser fatto? Non è ben chiaro. Anni fa un’equipe di ricercatori della Goldsmiths University di Londra ha studiato migliaia di successi in cerca della formula del tormentone: pare che uno degli ingredienti essenziali sia un “grido di guerra subconscio” lanciato da una voce maschile – come l’urlo barbarico di Tuttifrutti – che raduna i nostri istinti tribali sonnecchianti. Ma di ipotesi, nei decenni, se ne sono lanciate tante: il tormentone è un “memento mori” in abito da passeggio, come la contromarca del soprabito nel Perturbante di Freud; il tormentone è analogo all’impulso a confessare una colpa inconfessabile, è il nostro versante Raskolnikov, è una rivelazione oscura che non riuscendo ad accedere al castello della coscienza sguazza nel fossato circostante. Accanto al grido di guerra c’è poi il richiamo d’amore: il Montale dei Mottetti era inseguito dal motivo di una danza popolare – do re la sol sol – che alludeva alla presenza invisibile di Clizia, come la “petite phrase” della sonata di Vinteuil che riportava a Swann il ricordo di Odette.
Come si vede, guide e psicopompi servono a poco: ciascuno deve seguire la sua via. Si tratta di scuotersi la distrazione di dosso e chiedersi (fatelo subito): perché questo grillo musicale per la testa? e perché proprio adesso?
Articolo uscito sul Foglio l’8 settembre 2012 con il titolo Grido di guerra o richiamo d’amore? Fenomenologia del tormentone
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