Guido Vitiello

The Ruby Horror Picture Show

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dracula-has-risen-from-the-grave-movie-poster-1968-1020192415I film dell’orrore usano spesso l’espediente del false ending, il falso finale. Il mostro sembra sconfitto, lo abbiamo visto precipitare nel vuoto, o avvolto dalle fiamme, o richiuso in una bara tre metri sotto terra. I sopravvissuti festeggiano la liberazione dall’incubo. Ma ecco che una zampa pelosa spunta dal ciglio del burrone, uno spettro carbonizzato si presenta alla porta, la mano pallida e affilata del vampiro si apre un varco nel terriccio intorno alla lapide. Lo spettatore ingenuo sobbalza, il più smaliziato per poco non sbadiglia.

Provo qualcosa di simile leggendo i commenti alla sentenza della Cassazione sul caso Ruby, che avrebbe segnato la fine della guerra dei vent’anni, il divorzio tra etica e diritto, il tracollo della giustizia politicizzata e di chissà che altro. È la fine di un’era, dice Lucia Annunziata, nonché l’ennesima sconfitta per “la mia generazione” (santo cielo, basta). “La giustizia repubblicana è sepolta”, twitta Flores d’Arcais, che ha un gusto più spiccato per l’horror e il gotico.

In quei film, lo avrete notato, c’è un personaggio ricorrente, il profeta di sventure che ha capito tutto e tenta di avvisare gli altri. Ma non lo prendono mai sul serio perché ha l’aspetto strambo: può essere un bambino paranormale, un lunatico in camicia di forza, un veggente cieco. Stavolta, nel Ruby Horror Picture Show, il ruolo è toccato a un vecchio matto che fa vanto di praticare l’autofagia, e ditemi voi se non dobbiamo fare i complimenti al responsabile del casting. “I giudici politicizzati?”, gli ha chiesto il Quotidiano Nazionale. “Piuttosto, l’obbligatorietà dell’azione penale. Vergogna!”, ha risposto Pannella. Quella parte dell’intervista è passata pressoché inascoltata e, credetemi, lo resterà a lungo. Da spettatore smagato posso trarne una sola conclusione: il mostro è ancora tra noi, pronto a sbucare dal sottosuolo.

Ma già che è difficile prestare ascolto ai matti propongo il libro di un savio, apparso nel silenzio generale alla fine del 2014: Il diritto penale come etica pubblica (Mucchi Editore) di Massimo Donini. Poco più di cinquanta pagine, ma c’è l’essenziale per capire da quali paludi viene il mostro che alcuni chiamano giustizia politicizzata e altri giustizia repubblicana, avendo entrambi ragione. Il punto di partenza non è nuovo: manca all’Italia un sistema di valori pubblici condivisi. Le morali di partito, di chiesa o di fazione sono via via regredite a morali private, e la magistratura si è infilata in questo vuoto non solo esercitando il “controllo della virtù” ma foggiando un’etica nuova con lo scalpello dei processi. L’originalità della tesi di Donini, tuttavia, non riguarda questa supplenza tante volte discussa. Gli usi politici e pedagogici del processo penale, scrive lo studioso, “sono parte della privatizzazione, e non solo della moralizzazione, della cosa pubblica. Non sono dunque un fenomeno diverso, ma un aspetto della stessa realtà”.

È illusorio immaginarsi un paese di fazioni dedite al “particulare”, come piace dire ai guicciardiniani di Repubblica, sul quale vegliano le vestali togate dell’interesse generale: “Il fatto è che la Giustizia vive tutte le contraddizioni e le malattie del sistema, invece di costituirne l’antidoto” (è quella che il pazzo autofago chiama, da prima che molti di noi nascessero, partitocrazia). E il processo è spesso “strumento di lotta ‘privata’ tra avversari e partiti: che tale diventa, al di là delle buone intenzioni di qualche magistrato ‘puro’ nell’esercizio di una azione penale pseudo-obbligatoria”. O nel mancato esercizio. Donini non lo dice proprio in questi termini, ma è esattamente l’ipocrisia della (pseudo) obbligatorietà a consentire alle fazioni di nascondere la loro natura di fazioni; ed è lì, nella più bella del mondo, il principio che condanna tutta la giustizia a essere, volente o nolente, politicizzata.

Ascoltate il vecchio matto, prima di festeggiare: finché non avremo conficcato un paletto nel cuore dell’obbligatorietà, il mostro continuerà a uscire dalla tomba.

Articolo uscito sul Foglio il 18 marzo 2015 con il titolo Occhio, perché nel Ruby Horror Picture Show il cattivo non è ancora morto

Written by Guido

marzo 19, 2015 a 10:16 am

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