Guido Vitiello

Guillotine (La Controra, 8)

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Schermata 2015-07-27 a 15.24.45Mettere in fuga i demoni che il deserto suscita a mezzogiorno richiede il piglio imperioso e la voce grossa di un santo. Un novizio accidioso, uno che non sia tagliato per la Tebaide, in caso di apparizioni maligne dovrà ricorrere a rimedi meno eroici, a più modesti espedienti. Finché gli è possibile tenga a distanza il miraggio, non si avventuri a fissarlo, lo scruti appena con la coda dell’occhio se non vuole restarne abbagliato; da quegli sparsi indizi cerchi allora di risalire alla visione intera, e di capire dove risiede il suo sortilegio. È quel che faccio da giorni, incapace di scrollarmi di dosso le immagini della decapitazione di James Foley nel deserto siriano, vivide e astratte come un’allucinazione, e ugualmente incapace di guardarle, se non tra le dita di una mano pronta a chiudersi. Perché non so distogliermene? Ho provato a sfrondare quella visione dagli echi iconografici più familiari che le si affollano intorno come ospiti non invitati – Perseo e la Gorgone, Giuditta e Oloferne, Salomè e il Battista – e a lasciare in qualche cassetto della memoria l’antica ghirlanda metaforica che formano la testa mozzata, il disco solare e la morte (“Ô monstre, ô Gorgone, ô Méduse, ô soleil”, invocava Quéneau). Decantando e sottraendo, il meglio che mi è riuscito di pensare è questo: che se tanto attrae e spaventa il video di una testa separata dal corpo, è anche per il nesso genetico tra la decapitazione e l’immagine moderna, l’immagine riprodotta.

Ho così ripescato il libro dello storico dell’arte Daniel Arasse, La guillotine et l’imaginaire de la Terreur (Flammarion, 1987), magnifica indagine sulla decapitazione come matrice del ritratto – dal portrait du guillotiné, le teste recise e ancora sgocciolanti delle incisioni rivoluzionarie, ai primi dagherrotipi. Anche il linguaggio ha le sue astuzie. Il termine guillotine, notava Arasse, già nel diciannovesimo secolo si usava per indicare un tipo di otturatore fotografico, che serviva specialmente per i ritratti; e l’umor nero prese a dare il nome di photographe al funzionario incaricato di sistemare con precisione il collo del condannato tra le due semilunette della ghigliottina. Un clic, o una corda lasciata correre, e la testa si trovava separata dal corpo, immortalata in un’ultima espressione: ghigliottina e fotografia sono sorelle gemelle. Arasse si aggirava con maestria tra le stampe della Francia giacobina, gli scritti dei medici, le perorazioni dei membri dell’Assemblea, le sottili discussioni dei filosofi, gli aneddoti dei cronachisti; ma si arrestava alle soglie dell’invenzione del cinema, senza neppure menzionarlo. Avesse fatto solo qualche passo più avanti, ad attenderlo avrebbe trovato un film di appena diciotto secondi prodotto da Thomas Edison e diretto da Alfred Clark, The Execution of Mary, Queen of Scots, dove l’ascia del boia si abbatteva sul collo di Mary Stuart. Risale al 1895, anno di nascita della nuova arte.

La presenza quasi ossessiva di decapitazioni nei primi anni del cinematografo meriterebbe ben più di questi miei appunti disordinati. L’ombra lunga del patibolo pende, per esempio, sul cinema così lieve di Georges Méliès. Non solo sugli esempi più eloquenti come Les Incendiaires (1906), che culminava nell’esecuzione di un criminale per mezzo della ghigliottina, o Le bourreau turc (1904), dove un un turco caricaturale, barba lunghissima e turbante, spiccava quattro teste dai rispettivi tronchi con un unico colpo di scimitarra. L’opera di Méliès è un grande incubo giocoso di teste staccate dai corpi, che si gonfiano e si sgonfiano come palloni di caucciù, che fluttuano nell’aria come ectoplasmi, che appaiono e scompaiono, che ballano e cantano in coro. Tutto molto divertente, e si capisce perché lo venerassero i surrealisti. Eppure – lo osservò una volta un archeologo del cinema delle origini, Noël Burch – il tono comico che soffonde le tante decapitazioni, mutilazioni e amputazioni d’arti nei primi film aveva anche qualcosa di esorcistico; era un modo per venire a patti con l’avvento di una macchina di riproduzione che aveva il potere perturbante di smembrare il corpo umano in mille inquadrature e ingigantirne le parti anatomiche ancora in movimento.

E così, divagando, ci ritroviamo molto lontani dalle immagini di Foley nel deserto siriano. O forse molto vicini. Perché anche se l’Isis ha aggiunto qualche fronzolo, qualche alternanza di piani, qualche furbizia di montaggio allo scabro “stile Al Zarqawi” (la formula è di Christian Uva), quel che vediamo, alla fin fine, è ancora il tableau vivant di una decapitazione, fisso, ieratico, la vittima e il suo boia ripresi frontalmente e a figura intera. Quasi un film di Méliès.

27 agosto 2014

Written by Guido

agosto 9, 2015 a 9:00 am

Pubblicato su Controra, Il Foglio

Una Risposta

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  1. Lo sguardo pone cornici, delimita, taglia, esclude….decapita

    laura

    agosto 11, 2015 at 11:17 am


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